Bonaiuti e Pettazzoni, due costruttori di identità
Le civiltà si misurano anche, e soprattutto, nel loro modo di affrontare la questione dell’identità. Le istituzioni vitali e in crescita hanno nell’individuazione dei caratteri nazionali e popolari una delle loro più importanti funzioni. Al contrario, come ognuno vede nel nostro tempo, le società in disgregazione non fanno che prosternarsi dinanzi all’altro-da-sé, confondono o addirittura cancellano le tracce della lunga strada comune, dando sfogo a quel senso di colpa o Selbsthass (l’odio di sé), in cui già Freud trovò la prova dello sfaldamento coscienziale di popoli e individui. La cerca del sacro, lo scavo nei giacimenti memoriali collettivi, lo sforzo di proteggere e potenziare i simboli della storia, sono altrettanti motivi di crescita, una cultura che diffondendosi si accresce e si rafforza, arricchendo di sapere accomunante la vita e la vita politica.
Sotto i segni del confronto e, quando occorra, del benefico conflitto, si dispiega l’attività di una Kultur creatrice. Il riandare alla fonte dell’individuazione porta con sé la determinazione di opporsi al lento declinare dei valori, preferendo vivere un tramonto luminoso, anziché una rovina priva di onore. Anche la società contemporanea abbisogna di sacro. Anzi, soprattutto la società contemporanea, che è fatta segno quotidiano da attacchi di sempre più plebea massificazione, nel segno di quel cosmopolitismo materialista e nemico del mito che tutto livella e depriva di senso.
Quando ad esempio un Ernesto Bonaiuti – il sacerdote modernista, scomunicato nel 1926 e dal 1929 sollevato dall’insegnamento, anche per essersi rifiutato di giurare fedeltà al regime fascista – andava professando la necessità di studiare la religione come fatto in sé e non come atto di fede, in realtà stava compiendo un’operazione culturale di grande importanza: il reingresso della cura del sacro nella società. A dispetto delle accuse che gli vennero rivolte dalla Chiesa (e indirettamente dal regime, che appunto dal ’29 ne divenne alleato), Bonaiuti non veicolò la laicizzazione, ma lanciò una concezione del sacro che doveva essere altra cosa rispetto al confessionalismo.
Contro il temporalismo pontificio doveva passare l’idea della religione come fatto sociale. Non una cosa da poco. La “secolarizzazione delle scienze religiose”, nella prospettiva di Bonaiuti doveva portare alla liberazione delle energie legate al sacro, disponendole però entro categorie politiche e non clericali. Su questo punto, non paradossalmente, ma del tutto naturalmente, l’eretico Bonaiuti si incrociò con la lettura storica operata dal fascismo.
La stesura dei Patti Lateranensi, se obbligò l’Italia a certe sudditanze (insegnamento religioso nelle scuole, leggi sul matrimonio, favoritismi agli istituti cattolici, sovvenzioni, privilegi: in una parola, “statalizzazione” del cattolicesimo), tanto che vi furono momenti di grave rottura ideologica (come ad esempio nel caso di Giovanni Gentile), dall’altra parte non imbrigliò il regime più di tanto. L’indipendentismo fascista nei confronti della Chiesa (testimoniato dalle tensioni con l’Azione Cattolica intorno al 1931), traevano spunto dalle affermazioni dello stesso Mussolini, che in alcuni discorsi risalenti a pochi mesi dopo la Conciliazione ebbe ad affermare la superiorità storica di Roma sul cristianesimo, nel proclamare che la parola di Cristo, senza il connubio con la Città eterna che ne dilatò il messaggio, sarebbe rimasta modesta faccenda di settarismo levantino: solo Roma, come aveva ben intuito Paolo di Tarso, avrebbe fatto di un’eresia ebraica la religione dello Stato universale romano. Questo metteva in crisi la narrazione circa la continuità fra la comunità cristiana delle origini e la Chiesa, che in questo modo appariva ben più romana che cattolica.
Ci sono storici che si sono soffermati sul fatto che Bonaiuti, ufficialmente “perseguitato” dal regime fascista, di fatto ne fu un sostenitore ideologico sul punto fondamentale del primato politico dello Stato sulla confessione. Bonaiuti il “perseguitato”, che nondimeno scriveva su giornali fascisti (magari firmando con la sola sigla, ma vi scriveva) come il “Corriere Padano” del bottaiano Nello Quilici, oppure su “La Stampa” diretta da pezzi grossi quali Malaparte e Augusto Turati, questo Bonaiuti icona dell’antifascismo postumo, diceva cose sorprendentemente in linea, e di elogi nei confronti del regime ebbe a farne non pochi. Difatti:
I Patti lateranensi venivano inoltre presentati, quasi paradossalmente, come un incentivo alla libertà di ricerca, persuasione che Bonaiuti nutrì, almeno a tratti, anche in privato. A suo dire, nelle parole del capo del fascismo prendeva forma “l’azione unificatrice di Roma” e il sogno di un rinnovato primato italiano nelle scienze religiose.[1]
Questo giudizio, anziché collocare il regime contro la storia e contro la morale, lo inseriva pienamente tra i fattori di consolidamento non solo dell’identità religiosa, ma anche della funzione storica, elevata alla dimensione universale. Del resto, sono note le argomentazioni di Mussolini, svolte in questo periodo, circa la possibilità, per il fascismo, di usufruire della visibilità mondiale garantita dal cattolicesimo romano, al cui “imperialismo” etico avrebbe facilmente potuto affiancarsi ciò che, per il momento, veniva chiamato “imperialismo spirituale” dell’Italia fascista.
Come che sia, il fatto che «lo storico ‘eretico’ si schierò dalla parte dello Stato fascista contro le pretese ecclesiastiche», ridestando anche l’interesse di Gentile, ci significa che sovente la storia registra casi di convergenza di visuali politiche e ideali anche da parte di soggetti provenienti da diversi retroterra, oppure divisi da differenti giudizi sul mero dettaglio.
Bonaiuti, infatti, non ebbe da eccepire neppure sulla polemica intorno al nuovo paganesimo germanico, da lui giudicato, alla maniera della maggioranza della cultura fascista, un moderno frammento della riforma luterana, che nella polemica anti-romana aveva trovato il fulcro della propria rivolta. Proprio nella proposta di una rinnovata centralità della romanitas, contrapposta alla paganitas nazionalsocialista, Bonaiuti si trovò a fianco di quanti (non necessariamente da sponde clerico-fasciste) andavano diversificando l’Italia romana dal nuovo Reich in ascesa, il cui razzismo veniva fatto ascendere direttamente a Lutero e alla costituzione etnica ancestrale del germanesimo, giudicata immutabile, ciò che gli consentiva di
constatare attraverso i secoli, la permanenza inalterabile dei caratteri primitivi della spiritualità collettiva germanica, e quindi di rimbalzo il suo riaffiorare impetuoso e incontrastato nelle idealità e nei programmi del nazismo. [2]
Il che, per la verità, era più che altro un argomento forte dei neopagani guidati da Rosenberg: il nazionalsocialismo come vettore dell’immodificabile identità razziale. Su questa scia, la stessa guerra d’Etiopia del 1935-36, inserita da Bonaiuti nella tradizione dantesca circa l’impero come «mezzo provvidenziale» per la redenzione degli uomini, era giudicata positivamente, tanto da unirsi alla condanna nei confronti della Lega delle Nazioni di Ginevra, dal sacerdote modernista accusata di essere un covo calvinista che si studiava di avversare il giusto procedere della nuova Italia verso l’impero. All’avvento di questo, nel maggio 1936, Bonaiuti non mancò di rivendicare i giusti titoli della rinnovata romanitas mussoliniana, rifacendosi direttamente a Sant’Agostino e al suo elogio della Roma cesarea e al suo «provvidenziale espandersi». Su questo punto, bisogna dirlo, il Bonaiuti si trovò fianco a fianco con la Chiesa, che, come nel caso della potente Curia milanese, si distinse nell’elargire benedizioni alle Camicie Nere in partenza per l’Abissinia, ove andavano non a imporre un dominio brutale, ma a portarvi la luce di Roma, cristiana e fascista, «onde Cristo è romano», verrebbe da dire, seguendo l’Alighieri.
Gli studi storico-religiosi come essenziale momento di rinsaldamento di un’ideologia dell’identità radicale. Ciò traspare anche a proposito di un altro grande interprete del sacro nella storia moderna, il Pettazzoni, accademico d’Italia dal 1933.
Con questo grande studioso della spiritualità antica (da quella della Sardegna primitiva alla greca, all’iranica, alla nipponica) si conferma l’importanza della religione come fatto nazionale. Ogni popolo intraprende la sua via verso il sacro lungo le coordinate della propria specificità. Una sorta di “religione dello Stato”, sia essa lo shinto giapponese o la paganitas ellenica o lo zoroastrismo, fenomeni che ogni volta recano lo stigma di una cultura, irripetibile nella sua unicità. Il fine scientifico di Pettazzoni era la coniugazione della religiosità dello Stato con quella della salvazione individuale, così da rendere conto di quelle grandi religioni politiche che le civiltà del passato testimoniarono. A partire, da noi in Occidente, dal culto imperiale augusteo, cui la fusione col cristianesimo operata da Costantino, avrebbe generato nella “religione dell’uomo” la qualificazione di una potenza ulteriore, data da una “religione ufficiale dello Stato”. Come nello shinto, pertanto, a Roma si poté vedere il culto privato elevarsi a dottrina civile e a dogma di Stato. Di questi aspetti, volutamente trascurando le aporìe storiche, Pettazzoni rilevava la caratteristica di comunitarismo e di offerta eroica di sé, quell’energia dello spirito interiore che fa dell’uomo un sacerdote della patria e un testimone del sacrificio volontario.
Addirittura, dati quei tempi di faustiana proiezione verso l’illimite, Pettazzoni prefigurò un regime fascista in grado di assumere queste eredità romano-pagane, andando oltre il confessionalismo iniettato dal Concordato, e auspicando un’Italia ricondotta agli eroismi dei padri, così come stava accadendo al Giappone in quegli anni di mistica sovrumanista. Il superamento del cristianesimo, e il suo auspicato diluirsi in un sistema di religiosità nazionale, da preferirsi al radicalismo di certo nazionalsocialismo neopagano, doveva secondo lo studioso dar vita a qualcosa che sapesse orientare l’Italia verso il culto della sacralità della stirpe divinizzata: se il cristianesimo universale pareva raffrenare gli istinti nazionali-popolari, la “religione di Stato”, che conosceva le vie della collettività, li avrebbe liberati positivamente.[3]
Come Giuseppe Tucci, l’altro grande orientalista del tempo e suo più giovane collega d’insegnamento alla Sapienza, Pettazzoni era avviato a considerare il superamento del cristianesimo con i crismi di un rinnovato paganesimo, così da generare quella religione dello Stato di popolo che avrebbe avuto al proprio centro la mistica eroica “della morte in armi”. L’etica eroica del Giappone imperiale, incarnata dal codice guerriero tradizionale, veniva considerata come una mèta raggiungibile dall’Italiano dell’epoca: «Il Buscidô propone un ideale che ha radici ben ferme anche in questa madre d’eroi che è l’Italia e che tutti i popoli grandi conoscono».[4]
Si sarebbe così conferito alla guerra dell’Asse, allora in corso, il volto di un «atto liturgico» che avesse la sua fonte originaria nel «patrimonio civico-religioso arcaico». In questo modo, avrebbero ripreso vita le arcaiche connotazioni del millenarismo storico, devoto alle enigmatiche energie del creato, che, come nello zoroastrismo iranico, interpretava la vita come lotta inesausta: «la lotta umana non è che un episodio della lotta cosmica fra il principio del bene e il principio del male».[5]
Simili grandiose inquadrature appaiono oggi incomprensibili, a causa della straboccante dominazione del pensiero laico e meccanicistico. Quelle concezioni le si direbbero figlie di mondi lontani e mitologici e ai più, narcotizzati dal divampare dei fumi cosmopoliti, potranno sembrare deliri di menti febbricitanti. Il fatto che vi si dedicassero ingegni di prima grandezza, versati allo studio scientifico dei fatti antropologici, sembra un paradosso. Infatti, accade non di rado che, quando una cultura vinta mostra i suoi risvolti fatti di potenza immaginale resa inerte dal tempo, ai posteri incolti, che vi si raccolgono attorno increduli, appaia del tutto incomprensibile.
[1]Matteo Caponi, Il fascismo e gli studi storico-religiosi: appunti sul discorso pubblico di Ernesto Bonaiuti e Raffaele Pettazzoni, in Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, Scuola Normale Superiore, Pisa 2020, pp. 169-170.
[2] Ernesto Bonaiuti, Paganesimo, germanesimo, nazismo, Bompiani, Milano 1946, p. 7. Ma la prima stesura di questo testo risaliva all’anteguerra. Cfr. anche la recente riedizione col medesimo titolo, BookTime, Milano 2019.
[3] Cfr. Caponi, cit., p. 181: «Come si poteva leggere in un volume di propaganda del 1942, il fascismo era chiamato ad avvicinarsi allo spirito giapponese».
[4] Giuseppe Tucci, Il Buscidô [1942], in Sul Giappone. Il Buscidô e altri scritti, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2006, p. 86.
[5] Raffaele Pettazzoni, La religione di Zarathustra [1920], Arnaldo Forni Editore, ed. anast., Bologna 1979, p. 86.