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Elon Musk: il profeta dell’umanità multiplanetaria. Ma i burundesi non vanno su Marte

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Nel secondo millennio, sulla falsa riga dell’ Effective Altruism, nasce la “filosofia” del Lungotermismo, che afferma l’esigenza di assumerci oggi la responsabilità nei confronti delle prossime generazioni oggi spesso identificata con il contrasto al cambiamento climatico. Per i lungotermisti, la povertà di un Paese o le malattie circoscritte ad alcune zone del mondo, non sono priorità, perché non rappresentano un rischio esistenziale totale. In realtà i miliardari, sono molto interessati all’idea di come loro possano sopravvivere alla fine, ma anche a come trasformare la fine del mondo in una straordinaria opportunità di business, per far continuare a prosperare il loro sistema di sfruttamento. Secondo Musk, la specie umana “deve diventare multi planetaria per massimizzare la possibilità di sopravvivenza”. Salvare vite umane nelle nazioni povere potrebbe essere molto meno utile che salvare vite nelle nazioni ricche. Appare chiaro che i poveri burundesi non calcheranno mai le rosse sabbie di Marte, sacrificati per il “bene” di una sorta di razza superiore che gioca a Guerre Stellari, prima sul pianeta e poi nel cosmo.

 

Il Burundi è soltanto lo spunto per introdurre l’argomento di cui vorrei parlare. Sarebbero andati bene anche stati come il Congo o lo Zimbabwe, o magari la Liberia, tutti paesi ai primi posti della povertà mondiale, con età delle popolazioni bassissime, meno di venti anni, 16,6 anni nel nostro caso, con un 44,3% della popolazione compreso addirittura tra zero e 14 anni. Popolazioni giovanissime per le quali il futuro è semplicemente inconcepibile. C’è soltanto il presente ed è già abbastanza difficile da gestire. Fra l’altro popolazioni poco inclini all’emigrazione, per evidente mancanza di possibilità economiche. Il Burundi, tra questi, ha avuto anche l’aggravante di passare attraverso i massacri avvenuti negli scontri tra l’etnia Tutsi e quella Hutu. Infatti nel 1972, con il pretesto di un tentativo di colpo di stato Hutu, il governo si rese responsabile del genocidio più grande della storia del Burundi. Vi fu una strage selettiva di tutti i quadri Hutu a tutti i livelli: amministratori, magistrati, insegnanti, militari e religiosi. Le vittime furono 400.000 e 500.000 i profughi costretti a fuggire nello Zaire ed in Tanzania. Il massacro è ricordato con il nome di ikiza, la catastrofe.

Veniamo a noi e partiamo adesso da un dato di fatto: il mondo è popolato dalla razza umana, che vive in maniera certamente non equa. E’ una riflessione apparentemente più che banale, lapalissiana, ma trovandosi posizionati in alto o in basso nella piramide del benessere, viene affrontata dai soggetti coinvolti in maniera diametralmente opposta. L’idea dei ricchi di essere elemento benefico ed indispensabile alla società non è di oggi, ma ha permeato tutto lo sviluppo della società moderna, soprattutto dalla rivoluzione industriale in poi. E’ da questo sentimento che nascono le figure del benefattore e del filantropo. L’individuo, o la Fondazione, elargiscono una piccola parte del proprio capitale per trarne un vantaggio in visibilità, così da edulcorare l’aspetto di un sistema che crea continuamente sfruttamento ed accumulo, che acuisce giornalmente la contraddizione tra distribuzione iniqua della ricchezza e bisogni sociali insoddisfatti dall’altra. Nel secolo scorso la politica pelosa del “dono interessato”, ha creato correnti di pensiero che si ammantavano di una vera e propria aurea filosofica, seppur di scadente fattura.

Una delle più seguite è stata l’Effective Altruism, in italiano traducibile come “Altruismo Efficace”. Il movimento, emerso all’inizio degli anni dieci del secolo scorso nel dipartimento di Filosofia di Oxford, si basava sulla volontà di mettere in pratica l’idea che tutte le vite umane hanno lo stesso identico valore: la nostra, quella dei nostri vicini e anche quella di persone che vivono in posti remoti in cui non siamo mai stati. Da questo punto di vista, l’Effective Altruism ha rappresentato un tentativo di superare quella visione iper-soggettiva che ci fa istintivamente preoccupare di più per tragedie (terremoti, alluvioni, attentati, ecc) che avvengono in luoghi a noi vicini rispetto a ciò che accade in luoghi lontani o che coinvolgono persone considerate distanti. L’Effective Altruism però fu da subito oggetto di aspre critiche, fu infatti giustamente descritto come pensiero contiguo alle realtà sociali ed economiche responsabili proprio dei danni che si proponeva di affrontare. Critica corretta ad un movimento la cui valutazione conduce inevitabilmente dalle parti dell’efficienza economica di scuola neoliberale. Non solo, i fondatori sostenevano apertamente la necessità di assumere posizioni di lavoro ad altissimo reddito (nella finanza o nel mondo degli affari) per poter guadagnare più soldi da dare in beneficenza, volontariamente ignorando la contraddizione di partecipare attivamente, in ruoli di enorme impatto, a un sistema che causava i danni che si sarebbero voluti aggiustare con la beneficenza. Negli anni antecedenti la prima Guerra Mondiale il fenomeno neoliberista rimaneva un elemento di nicchia: parlare, infatti, di questo approccio politico nell’epoca degli accentramenti statali, pareva un’idiozia eretica. La nascente filosofia, la cui incubazione si protrarrà sino agli anni ottanta del secolo scorso, puntava a liberarsi dei vincoli statali, in una sorta di si salvi chi può, rivolto, ovviamente, verso le classi subalterne. Oggi, con la ferocia di questo sistema, purtroppo, ci facciamo quotidianamente i conti. Il capitalismo, ed i collegati interessi degli imperi, erano nei primi decenni del novecento costretti a restringere le maglie della propria attività di sfruttamento a mano a mano che la crisi insita nel sistema ne minava le basi di sopravvivenza. Gli stati sottraevano così diritti ai lavoratori in cambio di una parvenza di difesa delle patrie, gestendo economia ed espansione geopolitica in forme apparentemente positive. Poi, come sempre accade nella storia del capitale, fu invece la guerra a rigenerare la caduta tendenziale del saggio di profitto ed a ridistribuire il potere.

Nel secondo millennio, sulla falsa riga dell’ Effective Altruism, nasce la “filosofia” del Lungotermismo, che si prefiggerebbe di massimizzare i benefici globali delle nostre azioni e di accordare massima urgenza ai rischi esistenziali di lungo termine. I sostenitori di questo movimento hanno deciso di portare l’Effective Altruism alle sue estreme conseguenze logiche, innescando un effetto domino estremamente inquietante. Se, infatti, nel programmare la nostra azione altruistica non interessa dove le persone sono nate e se non conta nemmeno quando sono nate, allora il modo migliore per aiutare il maggior numero di persone diventa quello di focalizzarsi sul futuro a lungo termine dell’umanità: sul benessere di quei tantissimi miliardi di persone che devono ancora nascere. Alla base del Lungotermismo, apparentemente sembrerebbe esserci un’esigenza di responsabilità nei confronti delle prossime generazioni: quella che spesso viene anche chiamata “giustizia intergenerazionale”, oggi spesso identificata con il contrasto al cambiamento climatico. E considerando che il capitalismo globale e la sua classe politica sembrerebbero non avere nessuna intenzione di muoversi coerentemente sul lungo termine, la diffusione di queste idee apparirebbero come un passo avanti positivo. Tutto bene, allora? No, affatto, perché qui cominciano le complicazioni. Cosa succede infatti se iniziamo a prendere in considerazione le conseguenze delle nostre azioni politiche e sociali non tanto sulle prossime tre o quattro generazioni, ma su quelle che verranno tra migliaia se non centinaia di migliaia di anni? In realtà aumentiamo in maniera non trascurabile la probabilità che delle persone vere e proprie, quelle vive oggi e nel futuro vicino, subiscano gravi danni, compresa la morte. Se, infatti, il cambiamento climatico causasse pure la scomparsa di intere nazioni, scatenasse migrazioni di massa e uccidesse milioni di persone, il nostro potenziale di lungo termine, relativo ai prossimi miliardi di anni, potrebbe non essere compromesso, specialmente se nel frattempo avessimo colonizzato nuovi pianeti. Se, insomma, si assume una visione cosmica della situazione, anche qualora una catastrofe climatica eliminasse il 75% della popolazione, sarebbe, nel grande disegno delle cose, niente più di un piccolo incidente. Combattere il cambiamento climatico senza rivelarne le vere cause e senza applicazione immediata delle soluzioni, vuol dire in realtà disinteressarsi al problema, ovvero quello che già in effetti fanno multinazionali e detentori di capitale. Perché è proprio la società capitalistica a creare le condizioni per l’annullamento dell’ambiente, degradandolo per profitto. Se analizzato a fondo in questi termini, il Lungotermismo appare un elemento fortemente votato al mantenimento dell’ordine vigente ed all’esaltazione della sola sua metodologia. Insomma il capitale cerca di creare un mantello dell’invisibilità per le atrocità, lo sfruttamento ed il degrado attuali del pianeta, che sono sua esclusiva responsabilità. Perché cercare di risolvere la fame nel mondo, ora, se si può promettere di trasferire l’umanità su Marte, tra cinquanta o duecentomila anni?

Non a caso l’ambiente in cui questa filosofia si sviluppa, è quello di Elon Musk, spalleggiatore del neo presidente Usa, nuova star a stelle e strisce, fondatore di Future of Life Institute, organizzazione affine ai valori lungotermisti, ad oggi finanziata da oltre 1.500 donatori: il maggiore, citato sul sito, è Vitalik Buterin, il fondatore della criptovaluta Ethereum. E se l’idea di Elon Musk del viaggio spaziale come occasione per colonizzare il sistema solare per rendere l’umanità una specie multi planetaria è nota, forse è meno conosciuta la donazione di molti milioni di dollari fatta al Future of Humanity Institute, che fa parte di un’istituzione culturale molto potente, l’università di Oxford. All’interno della stessa, e con obiettivi molto simili, nel 2018 è nato il Global Priorities Institute. Entrambi i think tank offrono posizioni lavorative, borse di studio e opportunità nel tentativo di allargare la comunità di seguaci dell’ideologia lungotermista. Non mancano esempi analoghi anche nel settore privato, come la fondazione Effective Ventures, a sua volta finanziata da Open Philanthropy, nata dalla partnership tra due enormi organizzazioni: GiveWell e Good ventures. Good ventures è stata fondata nel 2011 da Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook. Cosa hanno in comune tutte queste persone e associazioni: sono tutte persone bianche, in grandissima maggioranza uomini, multimilionari, che hanno la capacità di farsi strada tra le maglie del potere mondiale. Persone che non hanno dalla loro parte solo le più importanti élite tech, ma godono di una crescente simpatia tra i decisori politici occidentali. Da qualche tempo, infatti, il lungotermismo si sta infiltrando nelle istituzioni che hanno concretamente il potere di plasmare il nostro futuro influenzandone l’azione. Un mondo che guardasse lontano centinaia di migliaia di anni, sottrarrebbe facilmente, per esempio, fondi inutili alla campagna vaccinale contro la malaria nelle zone più povere del mondo oggi a favore dello sviluppo dei vettori di Elon. Per i lungotermisti, d’altra parte, la povertà di un Paese o le malattie circoscritte ad alcune zone del mondo, non sono priorità, perché non rappresentano un rischio esistenziale totale. In questa falsa visione di grande prosperità futura, che non risente dei confini terrestri, temi come il cambiamento climatico non rappresentano un problema né tantomeno un’emergenza. In realtà i miliardari, soprattutto quelli provenienti dai circoli tech e dalla Silicon Valley, sono molto interessati all’idea di come loro possano sopravvivere alla fine, ma anche a come trasformare la fine del mondo in una straordinaria opportunità di business, per far continuare a prosperare il loro sistema di sfruttamento. Il lungotermismo è ancora una filosofia elitaria, che circola principalmente in ambienti tech e accademici, sta però prendendo piede in alcune grandi istituzioni come le Nazioni Unite (per quello che contano) o nell’apparato statunitense trumpiano. L’idea si sposa magnificamente con lo stato di tensione mondiale che potrebbe precludere ad una terza guerra mondiale, che ridistribuisca potere e denaro. N milioni di morti sarebbero semplicemente giustificati dal bisogno di un riassetto globale, che spinga a lasciare il pianeta in tempi non biblici. In pratica il lungotermismo appare la copertura più pericolosa di cui si ammanterebbe domani il capitale mondiale dinanzi ad un conflitto globale.

Riprendendo il vecchio adagio che alimentò l’imperialismo statunitense nell’ottocento, quello del Destino Manifesto, possiamo tranquillamente supporre che per questi signori posti ai vertici della società umana il pianeta Terra e i suoi abitanti non contano nulla, conta solo ed esclusivamente la specie, che, per dirla con Musk, “deve diventare multi planetaria per massimizzare la possibilità di sopravvivenza”. Il ragionamento sembra allora essere quello che le persone non siano altro che un mezzo per un fine, che non abbiano alcun valore intrinseco. Le persone sono considerate una sorta di ‘contenitori’ di valore, che di conseguenza contano soltanto se ‘contengono valore’ e che quindi contribuiscono all’ammontare netto complessivo di valore nell’universo. In sintesi, per i lungotermisti non è il valore che esiste al fine di beneficiare le persone, ma sono le persone che esistono al fine di massimizzare il valore. Che mi sembra la sintesi massima di questo sistema capitalista marcio ed iniquo. In base al loro ragionamento peloso, salvare vite umane nelle nazioni povere potrebbe essere molto meno utile che salvare vite nelle nazioni ricche. Questo perché le nazioni più ricche hanno a disposizione innovazioni considerevolmente migliori e i loro lavoratori sono molto più produttivi. Di conseguenza, è plausibile che, a parità di condizioni, salvare una vita in una nazione ricca sia sostanzialmente più importante che salvarne una in un paese povero. Dal riconoscimento dell’uguale valore degli uomini si è così passati velocemente al riconoscimento delle disparità; ma questa non è proprio la società divisa in classi del sistema capitalistico?! In questa prospettiva appare chiaro che i poveri burundesi non calcheranno mai le rosse sabbie di Marte e forse, già molto prima, cesseranno pure di calcare le sabbie dei loro villaggi o il cemento delle loro città, sacrificati per il “bene” di una sorta di razza superiore che gioca a Guerre Stellari, prima sul pianeta e poi nel cosmo.

Considerata l’immensa quantità di soldi (si parla di 46 miliardi di dollari) raccolta dai seguaci dell’Altruismo Efficace e del Lungotermismo ad oggi è evidente che i problemi sollevati dalla diffusione di questa scuola di pensiero non siano oramai più solo filosofici, ma politici. Nel corso del Ventesimo secolo abbiamo scoperto fin troppo bene dove ci può condurre la giustificazione razionale di una presunta “massimizzazione” del bene. Così non si può escludere che i lungotermisti possano giustificare politicamente il sacrificio di un miliardo di persone con la speranza paranoide che tra un milione di anni quest’azione salverà miliardi di miliardi di persone che ancora non esistono. Il tutto assomiglia molto ad una vera politica di guerra, alla creazione di una sorta di “etica” dello sterminio, adatta a far soggiacere culturalmente i popoli del mondo all’ineluttabilità di un conflitto totale. Nel frattempo (non ne dubitavamo), i super ricchi stanno, più o meno segretamente, costruendo i loro bunker antiatomici. Il più audace è sicuramente Mark Zuckerberg, che ha acquistato sull’isola hawaiana di Kauai un terreno di oltre 500 ettari nel 2014 per costruire un enorme bunker postapocalittico con scorte energetiche e alimentari durevoli per anni. Sicuramente, oltre la nevrosi, rimane la convinzione dell’élite di poter trascendere il male del mondo con abbastanza soldi e tecnologia. Zuck non è l’unico. In realtà diversi miliardari stanno costruendo rifugi su isole sperdute. Il fondatore di Linkedin Reid Hoffman ha dichiarato al New Yorker che almeno il 50% dei più ricchi della Silicon Valley hanno “un rifugio in vista dell’apocalisse”. Per esempio, Jeff Bezos, fondatore di Amazon ha acquistato due ville bunker da 147 milioni di dollari sull’isola di Indian Creek in Florida. Larry Ellison, miliardario di Oracle ha invece comprato una proprietà sull’isola hawaiana di Lanai, al largo della costa del Maui. Hanno realizzato bunker postapocalitici anche il fondatore di Alibaba, Jack Ma, il miliardario cofondatore di Paypall Peter Thiel, il regista di Hollywood James Cameron, e il guru della finanza William Foley. Questi miliardari stanno cercando di costruire un rifugio per quello che chiamano l’Evento; è il loro eufemismo per definire o il collasso ambientale, o un’esplosione nucleare, una tempesta solare, una virus inarrestabile o un attacco informatico dannoso, che potrebbero distruggere tutto. Ma forse, soprattutto, quei rifugi potrebbero servire a lor signori per proteggersi da una sollevazione massiccia degli sfruttati del mondo, stanchi ancora una volta di essere carne da cannone per gli interessi del capitale.

 

 

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