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GAETANO MOSCA E LA CRISI DEL LIBERALISMO

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Assistiamo alla lotta eterna fra il popolo e la loggia. Sono all’incirca centocinquant’anni che ribollono inquietudini intorno alla crisi del liberalismo, anticipazione certa di un secolo d’oro di tutte le meraviglie. Gaetano Mosca, fu lo “scopritore” moderno di un’idea semplice, quanto fondamentale: dove c’è una politica, lì esiste una classe politica e  anche una formula politica, una ideologia che ne motiva l’azione. Nella sua Storia delle dottrine politiche del 1933, Mosca aveva notato il prodursi delle diverse egemonie nella storia universale.  Mosca parlava del bisogno che ha la natura umana di dare al potere una giustificazione etica, e che, in base a questo, il consenso e l’armonia sono alla base della convivenza, come dire che la volontà generale, che crea un pensiero condiviso, una visione del mondo partecipata, è il presupposto della società politica ben ordinata. 

L’affannarsi attorno alle spoglie del potere ha sempre acuito i sensi dei cercatori di principî assoluti: si vuole la formula, si cerca in tutti i modi di trovare la definizione giusta per il governo dei popoli, qualcosa di valido per tutte le stagioni. È il momento in cui sorgono a getto continuo le tragiche utopie, che trattano la vita e gli uomini come manichini inanimati. I grandi concetti illuministi, attorno ai quali ha finito con lo spegnersi il genio positivo dell’uomo politico europeo, sono un’epigrafe all’impotenza: e noi, oggi, davanti alla disintegrazione dell’Europa, e con essa di larga parte del mondo, sotto la spinta distruttiva dell’Occidente atlantico, verifichiamo la saggezza di tutti coloro che, nelle varie epoche, diffidarono delle parolone universali, dei grandi temi dell’assolutismo: pace, uguaglianza, democrazia, libertà, che vediamo crollare nel sangue e nella distruzione, sotto i colpi di quanti non badano ai bisogni ideali e materiali dell’uomo, ma solo alla legge belluina della dominazione economica. Si è sempre dinanzi allo stesso spettacolo. E, ancora oggi, ciò che vediamo è la lotta eterna fra il popolo e la loggia. Fra le nazioni e le caste, fra le identità etniche secolari e le oligarchie della dominazione finanziaria. Come sempre, il potere si innesta su questa dialettica sanguinosa e perversa, che racchiude il segreto del dominio. Il comando dell’avanguardia, la giusta e naturale conformazione gerarchica, per cui i pochi conducono i molti, secondo l’elementare funzionalismo delle aggregazioni umane, si rovescia troppo spesso nell’egemonia degli infimi. Continueremo per altri secoli ad arrovellarci, per risolvere l’irrisolvibile. L’ideale democratico, di un governo che in nome del popolo prenda decisioni per il bene del popolo, dietro il camuffamento propagandistico si è rivelato per quello che è: un inganno feroce e una pratica remunerativa per gli imbonitori. E, finché saranno costoro a comandare, a muovere missili e cervelli allo stesso modo e a loro piacimento, non sarà mai il momento per l’avvento degli ideali alti e degli uomini atti a imporli: «E non è l’ingegno ma il carattere o la tempra che salva le nazioni», diceva il vecchio Francesco De Sanctis, «e la tempra si fiacca quando la coscienza è vuota, e non muove l’uomo altro che l’interesse proprio».

Tutto questo decadere di minoranze qualitative e affermarsi di plebei, usciti dall’incolto sottobosco della guerra economica, accade nel fermentare della cosiddetta, interminabile, “crisi del liberalismo”. Sono all’incirca centocinquant’anni che ribollono inquietudini intorno a questa fantomatica crisi, ogni volta data per passeggera, anticipazione certa di stabilizzazioni mirabolanti che dovranno condurre al secolo d’oro di tutte le meraviglie.

Ma noi osserviamo che il liberalismo non vive una crisi, ma è, esso stesso, la crisi. Come la sua spina dorsale, il capitalismo, questo liberalismo divenuto golem divoratore di popoli e generatore di dolore universale, vive di crisi, si alimenta di guerre e destabilizzazioni, non la smette di tormentare popoli e culture, scruta senza posa il futuro, al fine di inventare sempre nuove occasioni di annientamento di ciò che di buono e di saldo ancora esiste, ovunque nel mondo. All’epoca in cui il liberalismo, ancora agganciato al valore-nazione e a certi risorgimenti nazionali europei, andava interrogandosi ingenuamente sulle fonti prime del buongoverno e sulle possibilità di migliorare la società umana, il dilemma circa lo stile di governo – oligarchico, monarchico, democratico, popolare, oclocratico, plutocratico – veniva ancora esaminato alla luce della ragione calcolante, esattamente come ai tempi di Aristotele, Platone, Clistene, Pericle, Confucio. E con gli stessi risultati, alla fine di tanto elucubrare: il governo migliore è quello dei pochi pregiati, degli ottimi, che con la luce del savio procedere, pensano e provvedono per il bene di tutti, certamente. Ma senza nascondersi che esiste un moto perpetuo in senso contrario, per cui nell’associazione politica umana è al costante lavoro un’altra minoranza, fatta di sabotatori del bene, di settari malvagi. Quando queste considerazioni si presentarono nella testa dei nostri liberalnazionalisti d’inizio Novecento, che vissero dall’interno le contraddizioni di un sistema che pareva invincibile e padrone del mondo – al tempo del trionfante imperialismo europeo – l’esito che ne scaturì fu il medesimo. E l’idea brillante che ne sortì fu la stessa, e medesima la soluzione trovata: aristocrazia. I migliori devono comandare. Ma come formare i migliori? Di qui l’idea di certi regimi, di rivoluzione ma anche di tradizione, che pensavano di assicurarsi l’eternità fondando scuole-quadri per le classi dirigenti del futuro.

Nel circuito delle idee, trovò saldo posto il confronto dell’ideale col realismo dei fatti. Camillo Pellizzi, il politologo che in Italia fu tra i primi a insegnare sociologia e politologia in apposite scuole di preparazione politica, appena create, quando volle mettersi a riflettere sul potere, si rifece a Vico.

Alla sua idea dei cicli epocali, dunque al suo rifiuto del progressismo acritico, nel nome di un’eterna cerca del meglio tra le pieghe della qualità antropologica. Nella lotta fra l’uomo intelligente e il bestione, il fàmulo-servo massificato, Vico vedeva svolgersi la storia. E pensò alle famiglie come a una riserva di valore genetico trasmissibile. E dunque Pellizzi – che era allievo di Gaetano Mosca – prese a convincersi che l’aristocrazia nuova di cui si aveva allora bisogno in Europa, e soprattutto in Italia, coincidesse con la liquidazione dell’artritica nobiltà storica, ormai scheletro inutilizzabile anche nelle moribonde liturgie araldiche, e con la formazione rivoluzionaria di una nuovissima élite sorta dal combattimento e dalla lotta, e quindi surriscaldata da giovane sangue innovatore.

Pellizzi pensò dunque che questa aristocrazia dei migliori dovesse scaturire dal corpo ringiovanito della nazione. Egli scriveva dopo la prima guerra mondiale, quando l’Italia uscita da quella prova pareva essere in grado di partorire una classe politica di nuovo conio. E di dominare le convulsioni entro cui allora lo Stato liberale si contorceva, producendo ogni sorta di anticorpi, in grado di leggere con chiarezza ciò che stava avvenendo: il fallimento del sistema parlamentare, lo scollamento fra classe al potere e popolo. Ciò che gli fece teorizzare, ad esempio, l’idea del fascismo come aristocrazia, tracciando una via che presto avrebbero seguito svariati giovani in gamba di quel tempo, da Berto Ricci a Edgardo Sulis.

Dietro a tutto questo, c’era il pensiero di scienziati dell’analisi storica: i fatti politici come materia di decisione per nuclei ristretti di comando. Gaetano Mosca, insieme a Pareto, fu lo “scopritore” moderno di un’idea semplice, quanto fondamentale: dove c’è una politica, lì esiste una classe politica. E dove c’è una classe politica c’è anche una formula politica, una ideologia che ne sostiene e motiva l’azione. Questa osservazione, che potrebbe sembrare la scoperta dell’acqua calda, è in effetti importante, poiché affermò in modo evidente una realtà che non era stata pronunciata, ma che, nel solo pronunciarla, creava all’istante una dottrina politica, un sistema di potere, un pensiero legato al dominio, dunque, un’ideologia vera e propria. Considerazioni che ebbero il loro riverbero anche sul bolscevismo, sulla sua concezione del partito-avanguardia, con tutta una serie di aggregazioni e conseguenze politiche, di tipo verticistico e piramidale. Sappiamo, diciamolo tra parentesi, quanto il fascismo medesimo dovette a questa intuizione, che proveniva a sua volta da certe anticipazioni di Max Weber, anch’esse favorite dalla realtà dell’epoca, il disfacimento in cui versava il sistema di Weimar. Questi erano i casi in cui la realtà, attorno alla quale si affannavano gli scienziati della politica, anziché produrre utopie e assolutismi, rese possibile la validità di presupposti attinti dalla prassi, dalla vita contingente, dalla funzionalità dei valori, una volta messi a contatto con la concretezza dei fatti.

Importante è segnalare che la novecentesca teoria delle élites non esprime una dottrina, una trovata intellettuale – del tipo, ad es., del materialismo storico – che pretenda di spiegare scientificamente il meccanismo del potere: al contrario, quella teoria intendeva esporre l’eterno prodursi di fatti storici. Nella sua Storia delle dottrine politiche del 1933, Mosca si avviava lungo la traccia lasciata da Hegel, che aveva notato il prodursi delle diverse egemonie nella storia universale, per cui la “fiaccola della civiltà” era passata di mano volta a volta, dall’Egitto alla Persia, dalla Grecia a Roma, e così via. E un passaggio non secondario di questa scansione si trova anticipato, come noto, nella Filosofia della storia, in cui Hegel preconizzava – si era nel 1837 – la futura egemonia del popolo tedesco quale guida della civiltà mondiale. Queste considerazioni erano riprese dal Mosca, nel senso che le avanguardie di comando sono ciclici affacci di minoranze sulla ribalta, che esse ruotano nel mutare delle circostanze. E che, in questo loro scorrere come l’acqua del fiume di Eraclito, contribuiscono a mantenere invariata la legge dei pochi che, nella visibilità del potere effettuale, scivolano veloci al di sopra delle moltitudini, ben levigate dall’attitudine alla passività e all’immutabilità dei ruoli.

Fu Gianfranco Miglio a ricordare che Mosca, insieme a Pareto, andava a ricercare, sull’esempio di Machiavelli, proprio la realtà effettuale, legata all’essenziale della politica, soggetti dell’immodificabile natura del potere, differenti dall’ideologia, che veniva detta mutante. Al di sopra del perché e in nome di cosa un’élite lavora, in questo senso, vige la legge per cui per l’appunto è sempre un’élite ad agire, a formulare la decisione. E ad agire secondo metodi sostanzialmente invariabili nelle più disparate situazioni della storia. Questo, storicamente, anche, ma forse soprattutto, nelle epoche segnate da pratiche di collettivismo più proclamato che applicato, in cui si ebbero esempi di mitizzazione metafisica del potere individuale e castale (il partito).

Mosca è stato un realistico analizzatore della politica. Nella sua Storia delle dottrine politiche parlava del bisogno che ha la natura umana di dare al potere una giustificazione etica, e che, in base a questo, il consenso e l’armonia sono alla base della convivenza, come dire che la volontà generale, che crea un pensiero condiviso, una visione del mondo partecipata, è il presupposto della società politica ben ordinata. La compartecipazione a un’ideologia egemone non crea conformismo, in questo senso, ma armonia. E, peraltro, aggiungeva Mosca, «spesso serve a porre dei limiti all’azione di chi comanda e nobilita in certo modo l’obbedienza, non essendo essa il risultato esclusivo di una coercizione materiale».

Quello di Mosca era ancora un liberalismo nazionale, che vedeva l’élite in senso, se non propriamente classista, certo oligarchico, giudicando i suffragi universali un pericolo per le classi dirigenti liberali, esposte al giudizio «degli elementi più numerosi ma meno coscienti dei veri bisogni della società». Questa la venatura oligarchica di un liberalismo che, a cose fatte, e subìta la degenerazione cosmopolita, manterrà invariata questa sua inconscia paura per il popolo. Tanto che un filosofo del diritto come Gianluca Saduyn Bordoni ha potuto scrivere – nel suo libro del 2002 La crisi politica della modernità – che Mosca era in fondo un teorico del legame fra sistema rappresentativo liberale e classi medie, «al punto che se la classe media dovesse sparire, riducendosi al rango di plebe, le sorti del regime rappresentativo sarebbero definitivamente segnate».

Non crediamo che questa prognosi di Mosca corra il pericolo di avverarsi, ma molte delle cose che sottintendeva hanno mantenuto il loro valore. Miglio ricordava – nelle sue Lezioni di politica, pubblicate nel 1981, in cui si occupava dell’analisi dei fatti precisamente come scienza della politica – che quella di Gaetano Mosca fu una spietata denuncia del metodo elettivo-rappresentativo, il quale, dietro la facciata propagandistica del parlamentarismo, nasconde grovigli di condizionamenti, ricatti, cooptazioni, tali da rendere del tutto incongrua la narrazione democratica rispetto alla sua realizzazione di fatto. Diremmo questa la dimostrazione della distopìa connaturata al sistema liberaldemocratico, tutta avvitata sulla utopia negativa di qualcosa che funziona male, funziona senza giustizia, oppure non funziona affatto, ma che, nondimeno, continua a mietere preferenze, anche se con numeri oggi, di anno in anno, sempre minori. L’occhio dei Mosca e dei Pareto – aggiungeva Miglio nelle sue fondamentali Lezioni – guardava oltre le apparenze, finendo col fare di questo metodo una scuola che non si deve dimenticare:

Le analisi compiute da Mosca e Pareto sull’intreccio degli interessi al di sotto del principio rappresentativo, sulle cricche parlamentari, il corporarsi degli interessi e il loro canalizzarsi al di là dell’espressione formale della costituzione, sono sotto questo profilo esemplari.

Allora, si vorrà, forse, rendere qualche merito storico a quei movimenti politici della prima metà del Novecento che si azzardarono a provare un metodo nuovo, che rinnovava l’antico: la creazione di un’aristocrazia non settaria e castale, e tantomeno di classe, ma da distillare dall’intero bacino del popolo attraverso l’educazione sociale e la mobilitazione politica delle masse, anziché la loro domesticazione consumistica. Idea temeraria, poiché era e si diceva intollerante di altri poteri e sottopoteri, e soprattutto dei megapoteri planetari, finendo da questi schiacciata nella pratica di una violenza colpevolmente non prevista nei giusti termini.

In ogni caso, Mosca affermava chele opinioni possono essere molte e magari anche interessanti, ma nessuna pretesa rivoluzionaria può scuotere la costituzione degli atavismi antropologici legati alla convivenza fra grandi gruppi umani. Ciò che non presupponeva necessariamente il rapporto servo-padrone, studiato dallo stesso Hegel. Ma, forse, quello più “moderno”, più emancipato, fra capo e seguito, che reca onore di rango all’obbedienza non meno che al comando. Mosca scrisse ad esempio che il marxismo, nella sequela delle sue prognosi tutte quante sbagliate, era caduto nel massimo degli errori, quello di esser certo che il futuro sarebbe appartenuto alla maggioranza – il proletariato – nei confronti della minoranza – i capitalisti – e sempre Mosca ricordava la fallacia dell’aspettarsi dal collettivismo quelle pratiche di riscatto sociale, che invece riuscivano così bene al capitalismo, attraverso la produzione di massa: «La statistica ha dimostrato che il numero dei medi capitalisti e dei medi proprietari tende in generale piuttosto ad aumentare che a diminuire». Certamente. Al tempo in cui Mosca scriveva queste cose, si poteva anche registrare che «la proprietà dei capitali tende piuttosto a suddividersi mediante l’uso invalso della società per azioni». Ma, dagli anni trenta, enormi mutamenti sono accaduti, e Mosca non poteva prevederli. Tanto che proprio ciò che egli giudicava una suddivisione del capitale, alla fine si è rovesciato in una concentrazione, e proprio in virtù dei caratteri di ubiquità e spersonalizzazione del capitale finanziario, che lo hanno reso così diverso dal vecchio capitalismo industriale. Nel momento in cui la piccola industria – fiorente al tempo in cui visse Mosca – è stata disintegrata e pure quella grande non si sente tanto bene, la legge delle élites viene confermata in un tragico rovesciamento delle intenzioni, quella eterogenesi dei fini che vede oggi nel più tronfio dei modelli di satrapia all’asiatica, la dominazione privata dei pochi onnipotenti sui moltissimi inermi.

 

Luca Leonello Rimbotti

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