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L’America di Trump e il Medio Oriente

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Gli Stati Uniti si sono impegnati in Medio Oriente in un attivismo a-strategico privo di un disegno complessivo, senza eliminare il loro avversario principale, l’Iran. Il rovesciamento dello Shah a seguito della Rivoluzione Islamica costrinse gli USA a cercarsi un nuovo pilastro e la scelta è caduta necessariamente su Israele. Israele si è volto da risorsa dell’impero americano a suo problema, quale soggetto incontrollabile, lesivo di qualsiasi strategia dell’Egemone. L’impero per gli USA da risorsa è divenuto peso, insostenibile. Per l’Amministrazione Trump è imperativo provare a chiudere i troppi fronti aperti per concentrarsi su ciò che si ritiene essenziale. Trump è cosciente che la distensione nel Medio Oriente passa per la normalizzazione dei rapporti con l’Iran. I negoziatori americani hanno provato a inserire nei colloqui i programmi missilistici iraniani e la rete di rapporti con i gruppi dell’Asse della Resistenza. La guerra ha cambiato irreversibilmente caratteristiche e obiettivi immediati di Israele. Quella in corso è una deriva distruttiva ed autodistruttiva, una frenetica successione di fasi espansive senza alcuna fase di consolidamento strategico. Non v’è possibilità che Israele cambi traiettoria: non c’è alcuna alternativa a Netanyahu, con ciò inchiodando l’entità alla deriva attuale.

 

Origine e percorsi d’un sistema di potere

Se c’è un luogo al mondo dove l’Egemonismo USA ha spadroneggiato mostrando il peggio di sé, beh, quello è il Medio Oriente. Certo, l’Europa è stata ingabbiata nella NATO, nell’informale Impero Europeo dell’America, e ha conosciuto sudditanza politica, sfruttamento economico e condizionamento culturale che ha dilavato – ritengo irrimediabilmente – la sua anima; né le è stata risparmiata una lunga stagione di terrorismo, funzionale a sterilizzare il dissenso e indirizzare la parabola delle nazioni, ma tutto ciò non può essere paragonato ai massacri bestiali consumati in Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen o l’ignobile mattatoio della Palestina.

In altre occasioni mi sono dilungato sulle caratteristiche del dominio USA sulla regione, qui dico solo che all’inizio si è basato sul controllo politico, spinto oltre la tutela, esercitato sui gruppi di potere – per lo più familiari – che reggevano gli stati del quadrante (in pratica, possedimenti personali dei regnanti), per mantenere indirizzo e gestione di quelle che erano allora le maggiori riserve energetiche del pianeta. Col tempo, e col sorgere di una strutturata contrapposizione politica, primariamente conseguente alla vittoria della Rivoluzione Islamica e all’affermarsi della Dottrina della Resistenza in Iran, l’esercizio del potere da primariamente politico è virato a militare, con una proliferazione di basi americane sorte nella regione a partire dagli anni Ottanta per conseguenza al varo della Dottrina Brzezinsky.

In questo contesto, che ha nel 1979 una cesura, si sono manifestati due fenomeni correlati: il rovesciamento dello Shah a seguito della Rivoluzione Islamica ha costretto gli USA a cercarsi un nuovo pilastro e la scelta è caduta necessariamente su Israele, fino ad allora periferico alla strategia americana; scelta saldatasi con il successivo apparire della corrente “neocon”, il secondo fenomeno, che della destrutturazione e conseguente assoggettamento del Medio Oriente faceva un punto centrale quanto irrinunciabile della sua dottrina.

Ciò che è seguito è Storia: le infinite aggressioni all’Iran, visto come irriducibile nemico, la Prima Guerra del Golfo e poi le “endless wars” dell’era Bush Jr., i conflitti della Guerra al Terrore, concetto bizzarro, che non prevede specifico avversario ma, proprio per questo, funzionale alla giustificazione di una politica espansiva di sistematica aggressione. Ciò che li ha caratterizzati è stata la spiccata connotazione ideologica perfettamente speculare a quella espressa dai centri di potere israeliani.

Per dare senso e giustificazione teorica alle loro strategie, le leadership USA hanno adottato la dottrina elaborata da Bertrand Lewis; in base a essa hanno costruito e alimentato una strumentale islamofobia per creare il “Nemico” che giustificasse le proprie guerre perpetue; in base a ciò l’Islam era rappresentato come una minaccia e i musulmani, in quanto tali, irriducibili avversari. Con le guerre, gli interventi militari e la sovversione, i “neocon” puntavano alla destrutturazione degli stati mediorientali con la costruzione di un “arco di crisi”, o “caos creativo” che dir si voglia, attraverso cui mantenere un (dis)ordine americano. Strategie e mezzi, vedi caso, del tutto assonanti alla contemporanea dottrina enunciata da Odet Yinon, assunta come bussola dalle leadership israeliane.

Questa forte caratterizzazione ideologica e la simbiosi degli establishment di Washington e Tel Aviv sono le chiavi per comprendere le successive posture e azioni americane nel Medio Oriente, che non possono essere spiegate col semplice luogo comune degli interessi per il petrolio dell’area o per la vendita di armi. Visione improntata a economicismo, tipica dell’Occidente, ma smentita dalla Storia.

Il percorso delle vicende della regione è lungo quanto tormentato e non ci soffermeremo, ma fatto è che, col passare del tempo e l’avanzare della stagione unipolare, gli Stati Uniti si sono impegnati in un attivismo a-strategico privo di un disegno complessivo, che ha abbattuto uomini forti e travolto governi senza produrre alcun risultato stabile, né, tantomeno, eliminare il loro avversario principale, l’Iran che, invece, da quella continua aggressione ha tratto linfa e ha saputo proiettare la sua Dottrina della Resistenza nell’area perennemente destabilizzata dalle attività americane, tessendo una solida rete di relazioni evoluta col tempo nell’Asse della Resistenza.

Altro fenomeno evidente emerso nell’Era Unipolare è stata la crescente postura ancillare del potere USA nei confronti di Israele, bizzarro esempio di Egemone protettore influenzato e manipolato dal protetto. Le ragioni di questa singolare deriva non possono essere liquidate semplicemente con l’azione dell’onnipresente Israel Lobby, potente quanto pervasiva, ma che non sarebbe bastata senza il decisivo apporto della corrente “neocon” – con cui si è simbioticamente saldata – e il crescente peso delle sette evangeliche che, insieme, hanno prodotto l’unione fra il potere dell’establishment, largamente manovrato da Israel Lobby e “neocon”, e il potere politico assicurato dal grande peso elettorale dei “cristiani sionisti”. È stata questa saldatura a produrre un blocco del tutto trasversale ai tradizionali schieramenti politici americani, capace di condizionare profondamente postura, azione e narrazione negli USA e, per emanazione, nel resto nell’impero globale degli Stati Uniti.

Al contempo, nel corso dell’Era Unipolare in Israele è maturata un’altra dinamica che lo ha progressivamente e radicalmente mutato: l’affermazione del sionismo nazional-religioso (contraddizione in termini, ma tant’è) e la speculare progressiva marginalizzazione politica del sionismo laico, che ha però mantenuto una forte presa sull’establishment. Come ho scritto in diverse altre occasioni, ciò ha avuto un effetto dirompente sulla coesione e la tenuta complessiva della società israeliana che ne è stata fratturata, addirittura tribalizzata, come già nel 2015 dichiarato dall’allora presidente Reuven Livlin in un celebre discorso tenuto a Herzlya, in cui definì Israele il Paese delle Tribù.

Il profondo mutamento della società e della politica israeliana ne ha fatto un’entità sempre più estranea ai canoni della diaspora, massimamente quella statunitense, che si poneva su posizioni sostanzialmente “liberal”, del tutto aliene dalle caratteristiche che progressivamente emergevano in Israele. Ciò ha prodotto la bizzarra conseguenza di reiterate critiche verbali da parte dei vertici del sistema egemonico USA – in aderenza al proprio canone formale, basato sul liberalismo – cui corrispondeva il mantenimento d’un sostanziale assegno in bianco lasciato in mano ai governi israeliani qualsiasi cosa facessero. E ciò indipendentemente dalle Amministrazioni che si succedevano alla Casa Bianca o, addirittura, anche contrapponendosi a esse.

Memorabile esempio è stato il discorso tenuto da  a Washington nel 2015: dinanzi alle Camere riunite del Congresso il Premier israeliano si è prodotto in un’invettiva durissima contro Obama, reo di freddezza verso gli obiettivi del governo israeliano. Esempio unico nella Storia di leader che si è permesso di sbeffeggiare un Presidente USA in carica dinanzi al suo Congresso, interrotto da standing ovation a ogni frase. Nei fatti, è però visibile a tutti che Israele si è volto da risorsa dell’impero americano a suo problema, a soggetto incontrollabile in preda ad attivismo a-strategico, lesivo di qualsiasi strategia dell’Egemone che lo garantisce, cui è lasciata solo la supina acquiescenza alle iniziative di Tel Aviv. Condizione accettabile, come è stato, in un clima dominato da ideologia, ma del tutto inaccettabile da un punto di vista pragmatico che tenga conto degli interessi di un sistema.

I tempi odierni e la “rivoluzione” a Washington

Ma veniamo ai tempi odierni: l’esercizio dell’Unipolarismo egemonico USA ha dimostrato nel tempo la sua strutturale disfunzionalità, indebolendo l’impero americano dal punto di vista economico, sociale e culturale, politico e militare. Non mi soffermo su ragioni e dinamiche, approfondite in scritti precedenti, fatto è che la società americana si è spezzata in due fronti contrapposti, fra chi ha sostenuto costi, pesi e narrazione dell’impero senza averne alcun beneficio in cambio, e chi ne ha riscosso tutti i dividendi. Il risultato è stata una rivoluzione, che ha avuto un prologo di dubbia incidenza con la prima presidenza Trump e ora è deflagrata in tutta la sua potenza col secondo mandato del Tycoon newyorkese.

Intendiamoci: Trump ha cavalcato il fenomeno, ne è stato il catalizzatore, non l’ha creato; esso montava da anni nel disagio della Rusty Belt, nella sua classe media distrutta; si è alimentato col ripudio della “dottrina wooke”, della “cancel culture”, del “gender”, e di tutte le altre manifestazioni imposte dal “politicamente corretto” della deriva “liberal”; si è acuito col percepito tradimento dell’american dream in assai vasta fetta della popolazione. Quella che è andata in scena negli USA è – ripetiamo – una rivoluzione, un regime change che, per somma ironia della Storia, ha investito i palazzi del potere di Washington dopo che essi hanno realizzato infiniti regime change in giro per il mondo. Quanto duratura sarà e quali conseguenze avrà è altro discorso, ma certo è che sta sortendo effetti disastrosi su quello che era l’impero globale americano, tali che nulla sarà mai più come prima, quand’anche i democratici tornassero alla Casa Bianca. E ciò perché l’impero era già da anni in crisi manifesta, di cui la presidenza Trump è conseguenza, non causa.

Non ci dilungheremo sulle dinamiche della Guerra Grande, del cozzo fra preteso Unipolarismo americano vs resto del mondo non più disposto ad omologarsi assoggettandosi a esso, ci porterebbe lontano, ai quattro angoli del pianeta. Fatto è che, una volta deflagrata apertamente in Ucraina, essa si è rapidamente dilatata lungo le faglie apertesi in un sistema egemonico americano in manifesto affanno, ravvivando crisi già presenti o suscitando quelle latenti. Al-Aqsa Flood s’inserisce in questa ottica, nel quadro di un potere americano già in overstretching e di un Israele al culmine anch’esso di una crisi interna.

Il conflitto – che non è affatto legato alla sola Palestina, ma investe l’intero Medio Oriente – è scoppiato a causa di un sistema avulso dal contesto che lo circonda, da troppo tempo bloccato e usurato da una gestione del potere disfunzionale. E la maggiore disfunzione è originata da Israele, esso è l’elefante nella stanza che l’Occidente americano si rifiuta di vedere: è l’ultima entità coloniale rimasta al mondo che, in quanto tale, rende implicita una lotta di liberazione, inevitabile né sanabile fin quando – appunto – la struttura coloniale non collassi. La storia della decolonizzazione insegna che, in un contesto simile, il permanere di una simile entità è possibile solo con il continuo uso della forza da parte di essa e l’indefinito sostegno esterno, esattamente il quadro rappresentato da Israele con gli USA a prestare appoggio incondizionato.

Tuttavia, dottrina dice che l’uso dell’hard power – la forza – segue il principio di efficacia, ovvero punta a ottenere il risultato a prescindere dai costi; esso è temporaneamente usato dalle potenze per superare crisi non componibili diversamente, al fine di determinare altri equilibri raggiunti i quali esse si assestano facendo scemare la conflittualità. Ma se l’hard power diviene sistematica postura in assenza di realistica prospettiva di equilibrio, risulta sempre più oneroso fino a divenire insostenibile, esaurendo il sistema che lo esercita. E non parliamo semplicemente di costi economici, ma anche politici, sociali, culturali, che investono la coesione e la tenuta complessiva di chi protrae l’uso della forza indefinitamente. Riflessione che, nel nostro caso, s’attaglia sia alla realtà coloniale – Israele – sia a chi le presta sistematico aiuto – gli USA.

E qui veniamo all’essenza della questione, ovvero, al momento in cui Trump è giunto alla Presidenza, spintovi proprio dalla crisi dell’impero. Un impero che per gli USA da risorsa è divenuto peso, insostenibile, quindi, rifiutato in un ritorno a un’America centrata su se stessa, asserragliata in una Fortezza America nella riscoperta del concetto di sfere d’influenza, non parte di altro, non più Occidente, dopo ottant’anni ripudiato perché non le serve più, tornata solo se stessa. Al di là di toni e frasario molto “americano” usati dalla nuova Amministrazione, è stato necessitato riconoscimento dei propri limiti, inaudito in chi s’è sempre percepito “eccezionale”, ma imposto dalle circostanze in un’assai rude presa d’atto della realtà.

Solo alcuni dati per dare il senso degli Stati Uniti d’oggi e della loro condizione: un debito di quasi 37mila Mrd del tutto fuori controllo (e il cui costo supera ormai i 1.000 Mrd l’anno) che poggia su una situazione finanziaria netta negativa per oltre 24mila Mrd in rapido peggioramento, una bilancia commerciale in deficit crescente (attualmente fra i 1.200 – 1.300 Mrd) e uno strutturale disavanzo di bilancio annuale di almeno il 6,5%. In altre parole: gli americani hanno vissuto per decenni al di sopra delle loro possibilità e ora si trovano letteralmente sull’orlo della bancarotta. Sinistre avvisaglie di futuro crack sono le ultime aste del debito pubblico USA largamente non aggiudicate (e per questo, le successive emissioni di bond sono state rinviate) e le fughe dal dollaro verso altre valute registrate in concomitanza dei pirotecnici annunci dei dazi trumpiani, e dello scontro sui tassi con il governatore della Federal Reserve. Mai accaduto, in occasione di precedenti crisi avveniva regolarmente l’inverso.

In questo contesto, per l’Amministrazione Trump il ridimensionamento più che scelta è obbligo: è imperativo provare a chiudere i troppi fronti aperti per concentrarsi su ciò che si ritiene essenziale; almeno provarci, buttando a mare la narrazione ideologica e virando sul pragmatismo. Esattamente ciò che prova a fare la Casa Bianca, per lo meno Trump, per natura ed esperienza un affarista che bada al tornaconto lasciando perdere il resto. Quanto potrà riuscirci è altro discorso ma, nella sua visione aziendalista, l’impero USA è nettamente in predita e va ristrutturato: i rami da tagliare sono Europa e Medio Oriente, che da tempo mettono a bilancio spese e complicazioni; quelli su cui investire sono l’Indo-Pacifico, l’Artico e lo Spazio, trovando nuovi business, come la collaborazione con la Russia, per competere con la concorrenza cinese. Prospettiva urticante per chi era aduso al sistema imperiale e da esso traeva utile e potere, primi fra tutti, all’interno, gli appartenenti alla trasversale corrente “neocon” e i rappresentanti della burocrazia imperiale e, all’esterno, proprio Israele.

L’indebolimento degli USA e il Medio Oriente

Concentrandoci sul Medio Oriente, in realtà, gli attori locali s’erano già largamente adeguati a tale prospettiva che, da tempo, era emersa chiara. E le dinamiche nei conflitti in corso, meglio, nel conflitto unico che si svolge su vari teatri sono lì a testimoniarlo. Hanno constatato che è più conveniente trovare reciproco accomodamento seguendo l’interesse proprio che scontrarsi per l’interesse altrui, per cui seguono le proprie agende intrecciando rapporti con i competitor degli USA: Cina, Russia e lo stesso Iran che, piaccia o no, rimane imprescindibile attore dell’area, depositario d’un progetto di lungo periodo per nulla dismesso e soggetto tutt’altro che isolato (vedasi il recente trattato di partnership strategica con Mosca, i legami con Pechino e la normalizzazione con Riyadh).

Motore primo del fenomeno è l’indebolimento degli USA, l’appannarsi della sua deterrenza e il conseguente disconoscimento della sua egemonia. Dinamica in corso da anni, che ha visto nella fuga dall’Afghanistan e la sconfitta ucraina netta conferma. A tal proposito due notazioni: egemonia e deterrenza sono capitali immateriali, spendibili fino a quando esse sono riconosciute dai soggetti su cui sono indirizzate; nel momento in cui vengono contestate svaniscono e costringono chi voglia esercitarle a scontro con chi non le riconosce più, o a ingloriosa rinuncia a esse; il più delle volte a entrambe le cose. È essenzialmente una questione di percezione, e qui veniamo alla seconda notazione: nei rapporti fra gli attori internazionali, più che l’azione in sé conta la percezione che di essa hanno i soggetti verso cui è rivolta. E la percezione degli USA, fuor da Occidente, è scesa assai in basso. Primariamente in Medio Oriente.

Nel suo ragionamento geopolitico, è questo il campo della nostra indagine, Trump deve liquidare le crisi ritenute secondarie alla luce dei nuovi interessi emersi dalla rivoluzione andata in scena a Washington, e restaurare un’immagine di potenza; “tornare a fare paura” è il refrain più gettonato nelle stanze del potere statunitense, sul come è tutt’altra storia. Fra i “cattivi” dell’immaginario americano, i “vilain” da piegare, la Russia s’è dimostrata troppo, ma troppo, ostica (vedi le dichiarazioni di Tulsi Gabbard, la direttrice dell’Intelligence USA), ridicolo parlare della Cina (memorabile l’accorata audizione al Senato del sottosegretario alla Difesa Elbridge Colby), la Corea del Nord la “bomba” ce l’ha già e la ostenta (insieme all’alleanza militare con la Russia, consacrata sui campi di battaglia a Kursk), rimarrebbe l’Iran, che in America unisce tutti nell’esecrazione, ma è realisticamente avversario difficile, a una tentata coercizione seguirebbe una guerra vera, dalle conseguenze imprevedibili che gli USA non hanno energie, risorse e – soprattutto – interesse a intraprendere in un fronte oggi ritenuto secondario.

Allora, scalando ancora nel novero ufficiale delle potenze, ecco l’attacco allo Yemen scatenato a metà marzo, l’Operazione Rough Rider, che obbedisce a due esigenze immediate di Trump: la prima è restaurare la talassocrazia americana, dall’ottobre del 2023 ridicolizzata nel Mar Rosso; la seconda, collegata alla prima, lanciare un messaggio minaccioso all’Iran perché aderisca a un accordo. Peccato che le iniziative siano fallite entrambe: Ansarullah ha risposto colpo su colpo, la via per Suez è rimasta preclusa per anglo-americani e israeliani, la portaerei Truman è stata colpita (per comprendere il contesto, in una accostata per sfuggire a un attacco è arrivata a perdere un F/A-18) come altro naviglio americano, almeno 22 MQ-9 Reaper sono stati abbattuti e i missili yemeniti continuano a raggiungere Israele (da ultimo, è stato centrato l’aeroporto Ben Gurion con conseguente sospensione dei collegamenti da parte delle compagnie straniere); l’Iran non è stato per nulla intimidito, mentre le riserve di sistemi d’arma pregiati del Pentagono – già falcidiate dalla guerra ucraina e dai trasferimenti a Israele – s’assottigliano paurosamente, consumate in un teatro del tutto secondario invece che preservate per l’Indo-Pacifico.

Trump è cosciente che la distensione nel Medio Oriente passa per la normalizzazione dei rapporti con l’Iran, come pure è cosciente che il programma nucleare militare iraniano è pura leggenda (la sua direttrice dell’Intelligence, Tulsi Gabbard, glielo ha spiegato chiaramente), una bufala messa in piedi da Israele per giustificare un attacco su vasta scala che scateni una guerra con il necessitato coinvolgimento degli USA: è ciò a cui Netanyahu aspira dal 7 ottobre. E che il Presidente americano, su questo in continuità col precedente, non è disposto. E allora nuovo tentativo di spariglio delle carte.

Il Tycoon convoca Netanyahu, che si trovava a Budapest, e gli notifica tre cose che lo lasciano basito: l’inizio di trattative sul nucleare con Teheran, il veto a un massiccio attacco sull’Iran, un ruvido sollecito a chiudere la partita a Gaza. E qui occorre fare qualche considerazione: la prima è che a Washington l’aria è cambiata, al nuovo inquilino della Casa Bianca importa poco che muoiano ancora decine di migliaia di palestinesi, ma a patto che ciò non ostacoli ciò che ritiene i suoi interessi basilari; se la mattanza vieta la distensione nella regione, permettendo affari e disimpegno agli USA, beh, allora non può durare ancora a tempo indefinito. In altre parole, l’assegno in bianco di Biden non esiste più.

La seconda è che, per l’Iran, l’abbandono della prospettiva d’un programma nucleare militare non è affatto una linea rossa; sarebbe un ritorno al JCPOA e, nel quadro di accordi chiari e credibili, un’intesa si può raggiungere tranquillamente. Il vero motivo del dissidio, che finora ha impedito qualsiasi accordo, è stata la volontà americana – su espresso mandato israeliano – di legare le trattative sul nucleare allo smantellamento dei programmi missilistici che costituiscono la deterrenza e la difesa dell’Iran, e alla disarticolazione della sua rete di alleanze, ovvero, dell’Asse della Resistenza, queste sì linee rosse che, se infrante, ucciderebbero i negoziati sul nascere.

Inoltre, è da rimarcare un fatto interessante: Netanyahu ha ordinato da tempo alle IDF di preparare un massiccio attacco all’Iran, ma Israele non è in grado di condurlo senza l’intervento degli Stati Uniti, meno che mai di fare fronte alla reazione iraniana. Il generale Michael Kurilla, capo del CENTCOM, in pratica il proconsole americano dell’area, era ben disposto a dare luce verde all’operazione che, per questo, doveva partire entro maggio, prima del suo avvicendamento al comando. Ma Trump ha posto il veto quando ne ha avuto conoscenza, e per inciso: l’allontanamento di Tim Waltz dal ruolo di Consigliere alla Sicurezza Nazionale, assai più che per le note vicende delle chat su Signal, pare derivare dal fatto che avrebbe continuato a collaborare con Netanyahu per preparare l’attacco anche dopo lo stop del Presidente.

Ciò conferma che nelle burocrazie imperiali (il Pentagono su tutti) e nella stessa Amministrazione sono in molti a remare contro, rimanendo nelle posizioni “neocon” (il segretario di Stato Marco Rubio è fra questi), ed è per questo che il Presidente preferisce affidarsi piuttosto a soggetti esterni (come Steve Witkoff) per le trattative più delicate, perché pragmatici, simili a lui, estranei ai condizionamenti ideologici del passato impero.

Presente e prospettive

Nel momento in cui scriviamo le iniziative di Trump segnano il passo, diremmo necessariamente. Le guerre non possono cessare se non si rimuovono cause e condizioni che le hanno fatte esplodere, e in Medio Oriente il quadro è bloccato da un governo israeliano che punta ostinatamente tutte le carte sulla prosecuzione e l’allargamento del conflitto. Il fatto è che non vi è più un “dominus” che dia le carte, meno che mai lo è l’America di Trump; non è un fatto di semplice potere ma di visione, di capacità d’elaborare una strategia, di tessere una tela coerente per giungere all’obiettivo. L’Amministrazione USA ne è incapace, non ha né ideologia né progettualità coerente, si schiaccia su ciò che giudica l’interesse del momento con un’azione incoerente, spesso contraddittoria, dunque, a occhi terzi del tutto inaffidabile.

Dal 13 al 16 maggio Trump visiterà la regione, è un tour a cui il Tycoon dà la massima importanza; il 13 e 14 sarà in Arabia Saudita e, oltre a incontrarsi con Mohammed bin Salman, dovrebbe presiedere un summit con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo; nei due giorni successivi si recherà in Qatar, quindi negli Emirati. Rileva che al momento non è prevista una tappa in Israele. Al centro dei colloqui ci saranno temi economici – il Presidente è in cerca di sostegno e affari per la propria economia disastrata – ma è ingenuo non pensare che i temi strategici non faranno parte delle discussioni. Il punto è che l’influenza odierna degli USA è un pallido ricordo di quella passata: esempio lampante sono le manovre dell’OPEC+, una guerra strisciante sul prezzo di petrolio e gas che sta deprimendo la quotazione del greggio sotto i 60 $ al barile, equivalente a campana a morto per lo shale americano, che necessita di quotazioni assai più alte.

A rimarcare l’importanza del viaggio, nel momento in cui chiudo questo scritto, giunge notizia che gli USA interrompono gli attacchi aerei sullo Yemen, in cambio della sospensione dei raid della Resistenza sulle navi nel Mar Rosso. Rileva che nell’accordo mediato dall’Oman non si fa menzione degli attacchi yemeniti su Israele, che continueranno. È netta conferma della divaricazione d’interessi e scopi fra Casa Bianca e Netanyahu, ed è così che tutta la stampa israeliana ha letto l’annuncio: gli Stati Uniti si fanno da parte nello scontro fra Ansarullah e Israele. Per la dirigenza israeliana, tenuta all’oscuro dell’accordo, è shock, prova provata che l’ombrello americano non è più a prescindere, l’assegno in bianco è stato ritirato.

E s’attendono a breve altre sorprese: nel corso dell’annuncio, Trump ha anche detto che prima del suo viaggio ci sarà un’altra dichiarazione di grande rilevanza; al netto dell’enfasi abituale del Tycoon, secondo alcune indiscrezioni, pare che il Presidente voglia varare un’iniziativa per distribuire aiuti ai palestinesi della Striscia. Una misura che aiuterebbe lui e i vertici degli stati del Golfo nel chiudere affari lucrosi, ma che sarebbe un intervento a gamba tesa sui programmi di Netanyahu e del suo governo.

E c’è poi il nucleare iraniano: dopo tre tornate d’incontri, definiti dalle parti assai costruttivi, le trattative hanno subito un improvviso stop. Da quanto è emerso, pare che i negoziatori americani abbiano provato a inserire nei colloqui i programmi missilistici iraniani e la rete di rapporti con i gruppi dell’Asse della Resistenza. Dopo la frenata, un quarto incontro è stato programmato per l’11 maggio in Oman ma, a ogni evidenza, i sostenitori di Israele hanno provato a sabotare i colloqui; dinamica che trova conferma nel tentativo trasversale di ottenere per via politica, con minacce e prove di forza, il disarmo della Resistenza Islamica, portato avanti in Libano, Iraq e naturalmente a Gaza, oltre che in Siria. Iniziativa che, se mantenuta, farà detonare la regione.

E qui veniamo a una considerazione centrale sulla questione: è chiaro agli attori dell’area che gli equilibri precedenti sono infranti; si è in terra incognita e si combatte per costruirne di nuovi. Ciò che guida gli USA e i loro antichi partner nella regione è l’interesse, la voglia di riprendere a fare affari, di restaurare un sistema di potere in cui i vecchi centri di potere trovino accomodamento dopo tanti sconquassi. E, sopra ogni cosa, cogliere l’occasione per “normalizzare” la principale dinamica dell’area, la Rivoluzione Islamica, che, con la Dottrina della Resistenza, ha costituito e costituisce la minaccia principale per quei potentati. La parola d’ordine è provare a sterilizzarla in qualunque modo, dunque, smantellare l’Asse della Resistenza, che della Rivoluzione Islamica è veicolo di proiezione. Ciò fatto, nulla impedirebbe di tornare a fare affari con l’Iran, agli occhi loro divenuto uno stato come gli altri.

I negoziati sul nucleare tendono a questo, come i tentativi di disarmare la Resistenza in tutta la regione. Per fare un esempio, il 19 maggio Mahmud Abbas sarà a Beirut per proclamare il disamo delle formazioni di Al-Fatah presenti nei campi libanesi. Misura nella sostanza del tutto irrilevante, ma che punta al disarmo di tutte le milizie palestinesi residenti nel Paese dei Cedri (Jihad Islamico, Hamas, etc.) con l’intervento dell’Esercito libanese. Il viaggio di Abbas, un burattino collaborazionista nelle mani di Washington, Riyadh e Tel Aviv, è solo un pretesto per mirare a Hezbollah. Registi dell’operazione sono gli USA e l’Arabia Saudita, che stanno esercitando fortissime pressioni sul governo libanese, una loro creatura. Che tuttavia, presidente Joseph Aoun in testa, cosciente delle conseguenze nicchia. Ma è uno stallo che non può durare a lungo.

In questa fase, la Resistenza sta dando prova di lucidità, che non significa affatto resa. Molti suoi membri, quadri e dirigenti scalpitano per rompere gli indugi e dare il via a una battaglia a fondo sino a oggi rinviata. Sono spinti a ciò dall’esasperazione, dalla voglia di vendetta per i troppi morti e dalla coscienza delle proprie forze ma la dirigenza frena: per quanto possa apparire strano a occhio esterno all’area, essa è consapevole che il tempo lavora per lei. Il vecchio proverbio afghano recita: “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo” e, malgrado ciò sia ostico a visione occidentale, ciò si è più volte dimostrato verità.

A Israele è stata concessa l’occasione finale di chiudere la partita, di fare come al solito il lavoro sporco, nell’immediato a Gaza. Il ministro Bezalel Smotrich, dopo aver dichiarato che il dossier dei prigionieri non è prioritario, ha detto apertamente a Channel 12 che l’intenzione è di occupare interamente la Striscia e mantenerla a tempo indeterminato. Il piano, denominato “Gideon’s Wagons”, punta all’estensione a tutta Gaza del “Piano dei Generali” che tende a piegare e sfollare i gazawi con le armi e la fame. E per inciso: nella Striscia non entrano viveri dai primi di marzo e quelli che nei programmi israeliani arriveranno dopo (un decimo di quelli che entravano durante la tregua) saranno sotto il controllo delle IDF. E, stando a quanto detto da Ben-Gvir, serviranno a far sfollare i palestinesi da Gaza “volontariamente”: una deportazione sotto gli occhi del mondo. Lo sterminio dei palestinesi per fame, o sotto le bombe, non è effetto collaterale di questa guerra ma obiettivo dichiarato di essa.

Il governo israeliano ha già approvato l’operazione, ma l’ha rinviata a dopo la fine del tour di Trump nella regione per non disturbare gli “affari” fra i paesi del Golfo e gli USA. In ogni caso, è già in corso il richiamo di almeno 60mila riservisti, in parte per inviarli a Gaza, in parte per rilevare i reparti dell’Esercito permanente impegnati in Libano, Siria e Cisgiordania, che si concentrerebbero sulla Striscia nell’ennesima operazione dai contorni indefiniti: quali gli obiettivi? La “vittoria completa” promessa ogni giorno da un anno e mezzo? Tentare ancora di sradicare la Resistenza? Oppure liberare i prigionieri? Nulla che non sia stato già provato più e più volte, sempre fallendo.

La mancanza di un piano e di scopi percepiti come chiari sta causando un crollo di risposte allo zav shmone, l’ordine di chiamata urgente dei riservisti che, esausti per una guerra senza fine, non si presentano ai reparti. All’indomani del 7 Ottobre il tasso di presenze fra i richiamati fu del 120%; oggi, pare si stenti molto ad arrivare al 60%, con punte del 50%, con ciò rendendo non operativi molti reparti. Il feroce scontro interno fra Netanyahu, Magistratura e vertici della Sicurezza; il rifiuto alla gestione del dossier dei prigionieri, relegato sullo sfondo e con ciò negando uno dei pilastri fondanti dell’entità; la netta percezione, ormai comune, che il Premier israeliano punti solo a proseguire la guerra per interessi personali, sono ragioni che stanno frantumando Israele, e ciò sta emergendo in tutta la sua evidenza.

La guerra ha cambiato irreversibilmente caratteristiche e obiettivi immediati dell’entità coloniale, e parte crescente degli israeliani non è disposto ad accettarlo. Né a seguire i programmi di Smotrich, che non perde occasione di parlare di Yisrael Hashlema, il progetto di grande Israele dal Nilo all’Eufrate che spiega le aggressioni in Libano, Cisgiordania e Siria, con l’occhio, domani, a Giordania ed Egitto, complice la destabilizzazione di quei governi a causa delle azioni israeliane. Quella in corso è una deriva distruttiva ed autodistruttiva, una frenetica successione di fasi espansive senza alcuna fase di consolidamento strategico, che faccia i conti con le conseguenze delle sue azioni; economico, che assesti alla nuova situazione un’entità sempre più provata; culturale, che integri il nuovo scenario nella narrazione interna, che è infatti spezzata, e nell’immagine di sé proiettata all’esterno, mai stata peggiore. È esempio di scuola di sovraestensione che porta a esaurimento e disgregazione, di cui emergono già tutti i segni.

Conclusione

L’America non è più il Numero Uno, sostiene di esserlo per congenita vanteria e perché non sa pensarsi diversa. Non può (né vuole) agire come un tempo e in Medio Oriente l’hanno compreso da molto, per cui reciproca convenienza sì, obbedienza neanche per sogno. Qualcuno direbbe: “è il multipolarismo, bellezza!”. Oggi, a pensar bene, sono gli USA ad aver maggior bisogno delle Petromonarchie, dei loro dollari, assai più di quanto esse degli Stati Uniti. E lo dimostrano con accresciuta disinvoltura. Ma di affari, in questo quadro riposizionato, se ne possono fare ancora tanti. E con tutti.

Ciò che stona, da quasi cinquant’anni nota distonica con questo sistema di potere, è l’Iran e l’Asse della Resistenza, ma attenzione: una guerra aperta non la vuole nessuno, hanno scoperto che coesistere è più conveniente. Per questo, da un canto stanno provando a “normalizzare” Teheran e dissolvere l’Asse, dall’altro hanno lasciato a Israele l’ultima chance di regolare le questioni aperte. Con in molti il retropensiero che dalla prova ne esca del tutto esaurito e ridimensionato.

L’America di Trump non può fare di più e lo sa; il Tycoon non può più dire che l’Arabia Saudita è una mucca da mungere, come nel primo mandato. Ha bisogno di lei. Ha bisogno di distensione nell’area per concentrarsi altrove. Al peggio, l’abbandonerebbe senza impegnarsi a fondo, come in Ucraina. E qui cova dissenso nel cuore del potere USA, con una parte nostalgica, fissa ideologicamente su Russia e Medio Oriente, e una seconda, Presidente in testa, che pensa ad altro. A dove guadagnare di più e spendere meglio le risorse calanti.

Certo, rovesciare la Repubblica Islamica piacerebbe a tutti, Casa Bianca, famiglie reali e centri di potere, ma non al costo di una guerra regionale dagli esiti comunque disastrosi. Ad abbatterne il governo continueranno a provarci, lo hanno sempre fatto, ma è assai improbabile che il Sepah – l’apparato dei Guardiani della Rivoluzione – cada nella trappola di una rivoluzione colorata.

Resta Israele, non v’è possibilità che cambi traiettoria: non c’è alcuna alternativa a Netanyahu, con ciò inchiodando l’entità alla deriva attuale. Ucciderà, massacrerà ancora come sempre, ma per arrivare dove? I fatti dicono che da ogni martire, da ogni shaydh ne sorgono dieci; a ogni leader caduto un altro ne prende il posto. I fatti dicono che per Israele non è così, è l’inverso.

 

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