Il passaggio di tre senatori del M5S alla Lega ha riacceso i sentimenti etici dei grillini che parlano di mercato “un tanto al chilo”. Ma su questo tema non sono attendibili. Un’interessante analogia con le sardine
Ci risiamo. È di pochi giorni fa la notizia dell’ennesimo, clamoroso cambio di casacca di parlamentari in corso di legislatura consumato tra fiduciosi auspici di carriera e travagliate crisi di coscienza. Il caso ha riguardato l’uscita di tre senatori dal gruppo del Movimento 5 Stelle e l’approdo in quello della Lega. Diverse le motivazioni, articolate le giustificazioni degli interessati, più o meno riconducibili alle vicende del Mes o alla manovra finanziaria 2020.
Ed eccoci, quindi, costretti a prendere di nuovo posizione su un fatto di rilievo costituzionale e a marcare distanze rispetto alle successive interpretazioni ed analisi registrate dai media. Tutte, queste ultime, rispondenti alla ormai collaudata (ma poco obiettiva) logica del favore o dello stigma assegnati a seconda che a beneficiare del passaggio di campo siano liste di sinistra o formazioni di destra.
Il tema è noto, come noto è il nostro convincimento – ribadito anche sull’ultimo numero di “Italicum” – sull’argomento. È fuorviante, cioè, continuare a sostenere che un eletto al Parlamento, esercitando le sue funzioni senza vincolo di mandato, sia esclusivamente un rappresentante della Nazione e non anche un esponente del partito nelle cui liste è stato votato ed eletto. E per questo esentato da obblighi politici verso quell’apparato organizzativo e quella comunità umana – legati tra loro da sentimenti di appartenenza, sensibilità condivise, medesimi obiettivi – nei quali dovrebbe specchiarsi in un rapporto di reciproca identificazione. Secondo noi il vincolo c’è, deve esserci e non può essere negato trincerandosi dietro il dito ipocrita dell’articolo 67 della Costituzione.
Ad aver suscitato preoccupazione e nervosismo al capo politico dei pentastellati è stata soprattutto la circostanza che i tre fuoriusciti siano membri del Senato, l’assemblea dove più a rischio risultano essere i numeri di una maggioranza parlamentare precaria a sostegno di un governo impopolare. Un timore che deve aver offuscato le sue già precarie facoltà mentali, se è vero che il responsabile (sic) della nostra diplomazia, invocando il ricorso alla magistratura affinché si occupi della vicenda, ha confermato il suo abissale analfabetismo politico, giuridico ed istituzionale.
Il capo della Farnesina, formatosi culturalmente sugli spalti del San Paolo vendendo generi di conforto, ignora – né potrebbe essere diversamente – che in vigenza dell’attuale dettato costituzionale (il citato articolo 67), nonché dei regolamenti parlamentari che prevedono l’autodichia (la facoltà di produrre autonomamente giurisdizione in deroga al principio della separazione dei poteri) la fattispecie da lui contestata sulla quale invoca l’intervento giudiziario non può configurare alcuna ipotesi di reato. Ricorrere a qualche Procura territorialmente competente tradisce, semmai, la consapevolezza che il consenso al movimento, ormai più che dimezzato a livello popolare, si sta sgretolando anche in quelle sedi parlamentari dove dall’effimero elemento numerico trae le residue fonti di legittimazione politica.
Forse Di Maio non sa – come ha ricordato il prof. Lanchester, docente di diritto costituzionale italiano e comparato alla Sapienza, in una interessante intervista rilasciata a Radio Radicale – che l’argomento non è appannaggio dei 5 Stelle, bensì costituisce un tema classico della discussione post stato liberale oligarchico in cui vige l’idea burkiana della rappresentanza fiduciaria, con relativo divieto di mandato imperativo. L’idea per cui l’elettore non vota più il singolo parlamentare, ma il partito (detentore del rapporto fiduciario con l’elettore) avrebbe invece come ricaduta la decadenza del parlamentare qualora questi decida di cambiare casacca.
D’altra parte, non possiamo pretendere che il povero ministro degli Affari Esteri abbia il tempo di ascoltare un’emittente radiofonica che con furia iconoclasta – appoggiato dal suo degno compare Vito Crimi (nomen omen) – ha tentato senza successo di sopprimere e ridurre al silenzio, né che sappia chi sia Edmund Burke. Dubitiamo, infatti, che si sia mai cimentato (o possa mai farlo) con un esame di Storia delle dottrine politiche, o che pensi che la rivoluzione francese si sia svolta in Francia. Due considerazioni, comunque, si impongono.
Abbiamo già avuto modo di precisare che non tutti i “cambi di casacca” sono uguali. Nel caso in esame si tratta della tipologia più rara e rischiosa, quella che prevede l’abbandono del perimetro della maggioranza e dell’area di governo e l’approdo verso i lidi meno sicuri dell’opposizione. Da parte nostra, confermiamo la critica al divieto di vincolo di mandato, cioè quanto sancito dalla Costituzione. Ma teniamo a marcare una distanza dalla posizione pentastellata.
Se, come afferma il leader grillino, la maggioranza è solida e la legislatura può durare fino alla scadenza naturale del 2023 la scelta dei tre dissidenti rappresenta un indubbio atto di coraggio, presentando nel lungo periodo elevate incertezze politiche. In questo caso le critiche di matrice etica sollevate da Di Maio sono prive di fondamento in forza del minor prestigio, visibilità e peso politico che notoriamente connotano l’azione parlamentare di opposizione rispetto al quadro complessivo che si gode tra i banchi della maggioranza.
Inoltre, scendendo nel dettaglio della vicenda, i rilievi – anche giudiziari – mossi da Di Maio si rivelano piuttosto fragili. Due dei tre senatori “transfughi” sono stati eletti in collegi uninominali. Sulla base di quanto sopra esposto è indubbio che in questi casi è senz’altro prevalente il rapporto fiduciario tra elettore ed eletto, con il conseguente indebolimento del “concorrente” nesso tra elettore e partito politico. Una relazione più forte, più evidente, meglio “impugnabile” (per usare un termine processuale) in un impianto elettorale di matrice proporzionale.
Francamente difficile, inoltre, invocare da parte di un capo fedeltà assoluta e senso di appartenenza agli eletti in un movimento nel quale la selezione del personale politico è fortemente connotata da monocrazia e verticismo e dove la democrazia interna risulta opaca almeno quanto la trasparenza nelle finalità dei suoi mandanti. Al limite dell’eversione democratica.
Un’ultima considerazione la vogliamo, pertanto, dedicare ad una interessante analogia. È noto, a proposito di allergia alla democrazia, il desiderio pentastellato e della Casaleggio Associati di superare l’istituto parlamentare, luogo, per eccellenza, dove si confrontano posizioni e sensibilità politiche, sociali, ideologiche, culturali, economiche presenti nel Paese. E dove chi rappresenta pro tempore le minoranze può esercitare i diritti riservati all’opposizione. Ebbene, l’attacco sferrato dal capo politico del M5S ai tre senatori dissidenti ha voluto colpire proprio chi ha optato per una soluzione di opposizione. Non diversa la matrice di pseudo cultura politica delle cosiddette sardine, un movimento “spintaneo” che ben presto svelerà la sua natura organizzativa e strutturata, le quali da questi primi passi stanno già dimostrando il loro naturale conformismo e la loro vocazione mainstream. A cominciare dagli inusitati attacchi all’opposizione. Una ragione sociale folle. O forse un’ovvietà.