La prospettiva di una guerra contro l’Iran è sostenuta da anni dalle grandi lobbies americane unitamente ad Israele. Si è dunque posta in atto mediante modalità terroristiche una provocazione idonea a generare una guerra.
L’incubo del terrorismo islamico, gli attentati e le stragi ricorrenti ed imprevedibili, hanno avuto nell’ultimo decennio effetti traumatici per l’Occidente. I popoli dell’Occidente si sono dovuti adattare a convivere con l’insicurezza, con un nemico invisibile che potesse colpire ovunque e chiunque, con scarse possibilità di prevenzione. L’insicurezza permanente domina nella vita ordinaria dei cittadini inermi e indifesi.
Invece, nel caso in cui gli autori di barbari attentati non fossero seguaci dell’Isis o di gruppi legati all’islamismo radicale, ma fossero gli USA stessi a rendersene responsabili, cioè lo stato giuda dell’Occidente, depositario della liberal democrazia e dei diritti umani, come potrebbero i popoli dell’Occidente stesso non identificare negli USA il loro nemico assoluto?
Terrorismo di stato americano e pretese egemoniche sul Medio Oriente
I media hanno esorcizzato il trauma collettivo generato dall’improvviso raid americano che ha provocato la morte del generale iraniano Soleimani e del leader dei miliziani iracheni Mahdi al – Muhandis, concentrando la percezione emotiva delle masse sulle possibili reazioni dell’Iran, che ha esplicitamente invocato la vendetta contro gli americani. Il nemico mediatico irriducibile è e resta dunque l’Iran e i suoi gruppi islamici affiliati operanti nell’ambito mediorientale.
Tale narrazione mediatica comporta una implicita solidarietà nei confronti degli americani, che si vedono esposti in prima persona alle ritorsioni iraniane. Gli USA da carnefici, assumono invece il ruolo mediatico delle vittime predestinate. Senza questo capovolgimento occulto della realtà, i popoli europei avrebbero identificato il loro nemico mortale nell’Occidente, nella potenza americana dominante ed occupante sia in Europa che in Medio Oriente.
Il raid americano, secondo il diritto internazionale, è comunque da qualificarsi come un atto terrorista, in quanto compiuto da uno stato in assenza di una guerra dichiarata. Di terrorismo di stato si tratta, poiché da parte americana è stato perpetrato un omicidio, con le modalità proprie del terrorismo, di un esponente al vertice delle forze militari dello stato iraniano.
Sono stati amplificati fino alla dismisura i timori di una escalation bellica nell’area mediorientale, in vista della rappresaglia iraniana; tali timori si sono rivelati del tutto coerenti con la rappresentazione mediatica degli eventi. Lo stato di guerra in Medio Oriente è nei fatti permanente. Nonostante gli allarmi per i venti di guerra dati per imminenti e la perdurante criminalizzazione dell’Iran, la reazione iraniana è stata solo simbolica. Non si deve pensare però che le pretese egemoniche sull’Iraq e sulle aree circostanti dell’Occidente e dei suoi alleati siano venute meno. Il raid americano del 3 gennaio scorso ne è la dimostrazione evidente.
L’America First colpisce ancora
Le cause che hanno determinato questa azione militare decisa da Trump in prima persona contro l’Iran sono facilmente comprensibili. Trump infatti ha giustificato l’intervento armato riproponendo lo schema della guerra preventiva, già messo in atto da Bush, Clinton e Obama. Trump identifica in Soleimani il responsabile degli attacchi contro obiettivi americani compiuti in Iraq, Siria e Libano da gruppi filo iraniani e pertanto, mediante il raid americano, si sarebbero volute scongiurare ulteriori operazioni belliche che egli avrebbe effettuato contro le forze statunitensi. Ricorre quindi la strategia già abusata delle operazioni belliche spacciate per “peacekeeping”, compiute cioè ufficialmente non per iniziare una guerra, ma per evitarla e quindi garantire la pace.
Trattasi, è evidente, di “false flag”, di campagne mediatiche effettuate allo scopo di giustificare azioni belliche di aggressione. Ma occorre rilevare la diversa percezione con cui negli USA vengono recepiti tali eventi. L’America First colpisce ancora!
L’opinione pubblica americana è attualmente ostile a nuove guerre, dato l’elevato costo sia in termini finanziari che di vite umane che hanno comportato le guerre intraprese dagli USA nel corso dell’ultimo ventennio in Iraq, Afghanistan e Nordafrica, tramutatesi peraltro in ripetuti insuccessi per gli Stati Uniti. Trump aveva annunciato il prossimo disimpegno americano in Medio Oriente. Tuttavia ha ordinato nei giorni scorsi l’invio in Medio Oriente di ingenti mezzi militari e di truppe per 5.000 uomini, in aggiunta ai 3.500 già presenti in Iraq.
L’Iran, già incluso ai tempi di Bush nella lista degli “stati canaglia”, è stato sottoposto a nuove sanzioni da parte di Trump, dopo la rottura unilaterale del patto sul nucleare concluso da Obama. Trump ha inoltre inserito i Guardiani della Rivoluzione iraniani nella lista delle organizzazioni terroristiche. Il regime iraniano, a base teocratica, è definito dagli USA totalitario e repressivo contro una popolazione oppressa ed inerme. Gli Stati Uniti quindi condannano il regime di Teheran in quanto istituzionalmente repressivo dei diritti umani e di conseguenza avverso all’ordine mondiale neoliberista imposto dagli USA su scala globale. Gli americani però, in aperta violazione del diritto internazionale, omettono di considerare che i Pasdaran sono truppe regolari iraniane, cioè di uno stato sovrano membro delle Nazioni Unite.
Ma nell’ottica statunitense, l’omicidio di Soleimani si configura come una operazione antiterroristica che si considera legittima, al pari dell’uccisione di Bin Laden o di Al Baghdadi. Il raid americano sarebbe stato compiuto come un atto di guerra contro il terrorismo, messo in atto al fine di scongiurare guerre future e quindi di garantire la sicurezza internazionale degli Stati Uniti.
Infatti negli USA la legittimità delle operazioni militari intraprese nel mondo, non viene giudicata sotto il profilo del diritto internazionale, ma alla luce dei fondamenti ideologici e/o teologici delle istituzioni americane. Quale popolo eletto, depositario di una dottrina politica – ideologica su basi veterotestamentarie, gli USA si arrogano il diritto di imporre la loro giustizia a livello planetario.
Occorre inoltre considerare che a novembre 2020 avranno luogo le elezioni presidenziali americane. Trump, che aspira ad ottenere un secondo mandato, è stato già sottoposto al processo per l’impeachment al Senato e quindi appare in difficoltà. L’azione militare aggressiva contro l’Iran, è stata decisa pertanto in questo contesto.
Esiste in America una serie di precedenti storici di presidenti sottoposti ad impeachment che fecero ricorso alla guerra, quale mezzo di distrazione di massa, per convogliare quindi l’attenzione della pubblica opinione su eventi bellici straordinari e oscurare le conseguenze sfavorevoli derivanti dalla messa in stato d’accusa. Possiamo citare in sequenza storica:
1) Andrew Johnson nel 1868, che messo in stato d’accusa dalla Camera dei Rappresentanti, promosse una sanguinosa guerra contro i pellirossa;
2) Richard Nixon, che in analoghe circostanze nel 1972 effettuò criminali bombardamenti in Cambogia;
3) Bill Clinton, che nel 1998 fece bombardare Baghdad;
4) Da ultimo in ordine di tempo Trump, che si è reso responsabile dell’uccisione di Soleimani, atto che potrebbe provocare una guerra contro l’Iran.
E’ stato osservato che ogni presidente americano ha i suoi motivi per provocare una nuova guerra.
Si rileva inoltre un motivo “patriottico” che comunque coinvolge l’opinione pubblica americana. Carter nel 1979 si rese responsabile di un fallito blitz delle forze speciali americane per liberare i 52 membri dell’ambasciata americana presi in ostaggio a Teheran. Tale insuccesso comportò la mancata rielezione del presidente Carter. Il raid di Trump rappresenta quindi una rivincita americana volta a vendicare lo smacco subito nel 1979.
Aggiungasi infine, che dopo il recente assalto dei miliziani iracheni all’ambasciata americana di Baghdad, è chiara la volontà degli americani di non tollerare una replica di quanto successe a Bengasi, in cui a seguito di una manifestazione antiamericana fu ucciso l’ambasciatore degli Stati Uniti.
Le cause geopolitiche di un possibile conflitto con l’Iran
Valutare però l’operazione bellica americana solo sulla base di motivazioni mediatiche interne alla politica statunitense appare riduttivo se non erroneo.
La sconfitta dell’Isis e quindi della strategia di aggressione messa in atto dalle potenze sunnite (Arabia Saudita, Emirati Arabi e Turchia), oltre che da USA e Israele, ha comportato l’ingresso da protagonista nella scena mediorientale della Russia di Putin e l’affermazione dell’Iran come potenza regionale. Il ruolo geopolitico degli USA come potenza equilibratrice dell’area mediorientale è stato drasticamente ridimensionato.
Ma le tensioni nell’area non sono cessate. L’Iraq è sull’orlo di una guerra civile tra sciiti e sunniti, sostenuti rispettivamente da Iran e Stati Uniti. La strategia egemonica nell’area degli USA e di Israele è tuttora in atto. In questo scenario di venti di guerra, sulle cause che hanno condotto all’omicidio di Soleimani, così si esprime su “Il Manifesto” del 04/01/2020 Alberto Negri: “MA PER QUALE motivo gli Usa hanno colpito Soleimani proprio adesso? La sua presenza e la sua capacità organizzativa erano incompatibili con i piani americani di fare dell’Iraq una base operativa anti-iraniana. I segnali dell’escalation in Iraq si potevano cogliere già nelle settimane precedenti con gli attacchi Hezbollah agli Usa e le immediate repliche americane. Gli Usa stanno facendo le valigie dalla Turchia che ha accordi militari con la Russia e l’Iran: Incirlik per loro non è più una base sicura né per tenere le testate atomiche né per attaccare l’Iran”.
La politica di aperta contrapposizione all’Iran perseguita da Trump ha comportato l’imposizione di sanzioni economiche all’Iran che hanno coinvolto tutto l’Occidente. La prospettiva di una guerra contro l’Iran è sostenuta da anni dalle grandi lobbies americane unitamente ad Israele. Si è dunque posta in atto mediante modalità terroristiche una provocazione idonea a generare una guerra. Afferma a tal riguardo Giulietto Chiesa: “L’uccisione del generale iraniano Suleimanì, all’aeroporto di Baghdad (un atto terroristico compiuto dagli Stati Uniti sul territorio di un paese sovrano, cosa che tutti gli osservatori si dimenticano di notare) è una colossale provocazione il cui obiettivo è fare precipitare la situazione e innescare la guerra tra Stati Uniti e Iran. Chi vuole questo esito? Lo vuole Israele, nella persona di Benjamin Netanyhau. Lo vuole il Deep State americano, cioè Pentagono, CIA, FBI, NSA. Lo vuole il Partito Democratico (Obama, Clinton, Biden, Soros, con tutto il codazzo dei maggiori media americani)”.
Come già affermato in precedenza, l’attenzione dei media si è focalizzata sulla annunciata reazione iraniana. Tale strategia mediatica assume un chiaro significato: si vuole innescare la spirale della provocazione e determinare quindi una escalation della tensione tra USA ed Iran. In Iran si invocano ritorsioni e vendette contro gli USA. Le manifestazioni oceaniche in Iran potrebbero a loro volta innescare una spirale estremista allo scopo di provocare un terremoto politico interno, con conseguente estromissione della attuale classe politica al governo guidata dal moderato Rohani. Gli USA e i loro alleati vogliono infatti provocare una deriva estremista del governo iraniano da cui possa generarsi un casus belli che giustifichi una guerra aperta contro l’Iran. Questa è la tesi di Franco Cardini: “… I più accreditati osservatori delle cose iraniane non hanno mancato di sottolineare come le scelte di Soleimani fossero costantemente ispirate al massimo di moderazione compatibile con le sue funzioni. Lo si è eliminato esattamente per la stessa ragione per la quale si vuol fare in modo che Rohani esca sconfitto dalle prossime elezioni iraniane: Trump & Co. vogliono che in Iran trionfino le forze estremiste, in modo da poter lucrare pretestuosamente una parvenza di legittimità ai nuovi colpi che si apprestano ad assestare contro quel paese. Un progetto ignobile assolutamente degno di loro”.
Il suicidio geopolitico dell’Europa
I venti di guerra del Medio Oriente non sembrano tuttavia aver scosso le classi dirigenti italiane ed europee dal loro stato di permanente e acquiescente subalternità verso gli USA. Al di là delle dichiarazioni ufficiali dei leaders improntate ad un acritico pacifismo e ad auspicabili ma improbabili soluzioni diplomatiche della crisi mediorientale, non si registra alcuna esplicita condanna dell’atto terroristico compiuto dagli americani. Anzi, i leaders europei hanno condannato il ruolo politico assunto dall’Iran in Medio Oriente. L’Europa si è distinta ancora una volta per la sua colpevole assenza nella geopolitica mediorientale.
L’Europa ha subito i danni economici causati dalla politica protezionista di Trump, mediante l’imposizione dei dazi sulle esportazioni europee. Ha subito le ondate migratorie di masse in fuga dalle guerre fomentate dagli USA in Medio Oriente e Nordafrica con le “primavere arabe”. Le migrazioni sono state fronteggiate attraverso i patti scellerati conclusi con Erdogan e le tribù libiche, che hanno comportato rilevanti esborsi finanziari e la esposizione dell’Europa stessa al ricatto permanente di Turchia e Libia.
L’Europa è stata inoltre oltremodo danneggiata dalle sanzioni imposte da Trump all’Iran, con conseguente vanificazione di piani di investimento per miliardi di euro in Iran. Occorre inoltre rilevare che mentre gli USA possono usufruire della totale agibilità politica in Medio Oriente, in virtù della autosufficienza energetica ormai quasi raggiunta, l’Europa, quale principale importatore di greggio dal Medio Oriente, oltre ad essere soggetta alle fluttuazioni del prezzo del petrolio e del dollaro, è permanentemente esposta al ricatto energetico dei paesi produttori di greggio. La nuova geopolitica degli USA ha prodotto effetti devastanti per l’Europa. Senza che però venisse meno la subalternità atlantica di un’Europa che denuncia una totale assenza di soggettività geopolitica nel contesto mondiale.
Nonostante Trump abbia dichiarato il disimpegno americano dalla alleanza atlantica, non essendo più disposto a sostenere le spese militari della Nato senza il concorso degli europei per una quota pari al 2% del Pil per ciascun paese, l’Europa ha sempre confermato la sua fedele appartenenza all’Occidente atlantico.
L’americanismo ha ormai corroso fino alle sue radici l’identità europea: L’Europa si è totalmente assimilata all’America nella cultura, nella politica, nei costumi, sarebbe americana anche in assenza dell’America.
L’Europa vive in un ferale immobilismo, è rinchiusa in se stessa, in un dogmatismo finanziario atto a preservare il dominio dell’asse franco – tedesco sul Continente, che ha condotto alla marginalizzazione dell’Europa stessa dalla geopolitica globale.
La geopolitica mondiale è tuttavia in costante trasformazione, il primato americano è ormai in palese decadenza. Incombe l’avvento di una nuova geopolitica che prevede nuovi equilibri multipolari, che non includono l’Europa tra i suoi protagonisti.
Questa Europa, che versa in una crisi sistemica di carattere etico – morale, ancor prima che economico – sociale, denuncia un deficit di sovranità sempre più accentuato: il ripristino della sovranità degli stati, prima ancora che dell’Europa, è diventata una esigenza ineludibile di sopravvivenza. In assenza di sovranità politica si rivelerà inevitabile il suicidio geopolitico dell’Europa.