La globalizzazione è una concezione ideologica liberale atta a legittimare il primato economico e politico dell’Occidente americano nel mondo. Al dominio globale eurocentrico, è subentrato il dominio universale americano che implica l’imposizione a livello mondiale di un unico modello economico, politico e culturale. Il mondo multipolare potrà rappresentare una sfida che generi la fuoriuscita dell’Europa dalla post – storia e dal nichilistico vuoto di senso che affligge oggi la società occidentale?
Globalizzazione e occidentalizzazione del mondo
La globalizzazione ha la sua origine storica nell’avvento dell’era moderna in Europa, con le grandi scoperte geografiche tra il XVI e il XVII secolo. Le dimensioni del pianeta divennero definite e limitate, il globus si sostituì al mundus, quale entità concepita su base teologico – metafisica. Le terre ignote divennero dunque spazio globale da conquistare e governare da parte delle potenze imperiali europee, mediante la supremazia degli armamenti e lo sviluppo tecnologico.
La modernità europea si estese a livello mondiale. Esiste dunque un nesso di continuità storica, considerato dalla ideologia liberal – progressista come irreversibile, tra colonialismo, post – colonialismo e globalizzazione, il cui esito finale sarebbe costituito dall’avvento della post – modernità con il Grande Reset.
Con la fine del mondo bipolare della Guerra fredda, si impose un sistema economico neoliberista, quale estensione su scala globale del dominio unilaterale dell’unica potenza mondiale superstite, gli USA. Potremmo definire la globalizzazione “universalismo del mercato”, data la interdipendenza istauratasi tra le economie mondiali, la dimensione globale assunta dai mercati, l’espandersi della libera circolazione delle merci, dei capitali e della forza lavoro, favorite dall’avanzata del progresso tecnologico e quindi, dalla compressione degli spazi e dei tempi delle comunicazioni e delle transazioni economiche.
L’economia globalizzata, al di là della retorica ideologica liberista, non è un fenomeno originale del XXI° secolo, ma ha rappresentato la riproposizione in versione moderna della teoria settecentesca di David Ricardo dei “vantaggi comparati” e del liberismo individualista di Adam Smith, di dottrine economiche cioè già consegnate alla storia. Sono tornati inoltre di attualità i miti della “pace perpetua” kantiana e del “dolce commercio”, teorie tragicamente smentite da un trentennio di guerre senza fine.
Questa occidentalizzazione del mondo avrebbe dovuto produrre la diffusione del benessere e dello sviluppo del mondo intero, ma la delocalizzazione industriale, la deregolamentazione dei mercati finanziari, l’indebitamento insanabile del Terzo Mondo, l’aumento esponenziale delle diseguaglianze, della povertà e dei fenomeni migratori, non hanno fatto che accrescere il divario tra l’Occidente e i paesi sottosviluppati. La globalizzazione è stata quindi un’era di progresso per l’umanità? Il bilancio storico è fallimentare. In realtà la globalizzazione si è rivelata una concezione ideologica liberale atta a legittimare il primato economico e politico dell’Occidente americano nel mondo. Così si espresse al riguardo Costanzo Preve: “La cosiddetta “globalizzazione” non esiste. Affermazione provocatoria ed apparentemente demenziale, ma mi spiegherò subito. La globalizzazione è un concetto, ed i concetti sono reti per “pescare” la realtà. In quanto concetto non filosofico, ma scientifico (cioè delle scienze sociali), la globalizzazione si candida a capire, raffigurare, rispecchiare il mondo reale, che è in questo caso una sorta di “totalità” di rapporti economici, politici e culturali che si dichiara appunto siano ormai “globalizzati”. Ma è veramente così?
Non lo credo. La “globalizzazione” è in realtà un’autorappresentazione, ad un tempo apologetica e prescrittiva, delle oligarchie dominanti (non solo economiche) dell’imperialismo USA e dei suoi principali alleati (in primo luogo il sionismo assassino del popolo palestinese). Questa autorappresentazione apologetica e prescrittiva ricopre un ruolo analogo a quello ricoperto un secolo e mezzo fa dal cosiddetto “libero scambio” dell’imperialismo inglese dalla fine del Settecento all’inizio del Novecento. Nei due casi una vera e propria prescrizione imperialistica viene fatta passare per una descrizione neutrale ed accurata della realtà”.
Il tramonto degli stati
L’istaurarsi del sistema economico globale avrebbe dovuto condurre alla scomparsa progressiva della sovranità degli stati e alla sua devoluzione ad organismi sovranazionali dotati di poteri prevalenti nei confronti delle legislazioni statuali. Lo sviluppo del libero mercato globale infatti, è subordinato alla rimozione di tutti gli ostacoli di carattere politico e giuridico che si interpongono alla libera circolazione delle merci e dei capitali.
Secondo l’analisi di Danilo Zolo, con tale svolta epocale, è venuto meno l’ordine internazionale creato con la pace di Vesfalia del 1648, che pose fine alla guerra dei Trent’anni. I membri riconosciuti dell’ordinamento internazionale erano esclusivamente gli stati, dotati di sovranità interna sui propri territori e di soggettività esterna nell’ambito internazionale. La sovranità degli stati era inoltre garantita dal principio della non ingerenza da parte di organismi esterni nelle strutture politiche interne degli stati stessi. L’avvento del nuovo ordine globale invece, ha comportato la progressiva destabilizzazione interna degli stati, attraverso interventi militari aggressivi, quali le operazioni di peace keeping nei confronti degli “stati canaglia” (il giudizio sulla legittimità degli stati è divenuta una prerogativa esclusiva degli USA), rivoluzioni colorate, primavere arabe e/o attraverso una legislazione internazionale che ha destrutturato le istituzioni democratiche degli stati.
Oggi si antepongono agli stati organismi sovranazionali, quali la UE, l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale, la Nato, il G7, l’OCSE, dotati di poteri politici ed economici che prevalgono sulla legislazione statuale. Si sono affermate autorità transnazionali quali primarie fonti normative ispirate alla privatizzazione e alla economicizzazione dei rapporti giuridici e politici tra i singoli cittadini e tra gli stati, la cui finalità è quella di imporre una lex mercatoria internazionale atta a favorire il predominio di lobby finanziarie e grandi corporation multinazionali.
Anche la guerra è stata privatizzata. E’ questo un fenomeno esplicativo della dimensione post – storica assunta dalla civiltà occidentale. Scomparsi i valori e le virtù civili del patriottismo e dell’indipendenza nazionale, l’Occidente intende preservare il suo limbo di benessere post – storico delegando la sua sicurezza ad agenzie di truppe mercenarie (contractor). La globalizzazione ha condotto alla riviviscenza dell’Europa dei secoli bui, quella degli antipapi e delle compagnie di ventura.
La civiltà giuridica europea fondata sullo stato di diritto è stata ormai soppiantata da una giurisprudenza informale di natura contrattualistica che vanifica le garanzie giuridiche e le tutele sociali del cittadino dinanzi alla legge.
L’affermarsi di tale legislazione transnazionale è propedeutica all’avvento di una governance globale (quale quella delineata dal Grande Reset), che comporterebbe il definitivo tramonto degli stati nazionali. Tuttavia occorre osservare che la decomposizione degli stati è un processo che ha generato la destrutturazione etica, politica ed istituzionale in primis dell’Occidente, la cui governance è oggi prerogativa dei gruppi economico – finanziari transnazionali. Pertanto, le cause fondamentali della attuale decadenza dell’Occidente, risiedono nella subalternità delle istituzioni politiche alle oligarchie economiche. L’Occidente è infatti incapace di confrontarsi con le potenze emergenti del BRICS, che hanno invece preservato, con la sovranità dei loro stati, i loro valori etici e culturali identitari. Dinanzi alle nuove sfide del mondo multipolare l’Occidente si presenta disarmato.
Dallo stato sociale allo stato penale
Il nuovo ordine globale ha comportato l’istituzione di molteplici corti penali internazionali e quindi di una giurisdizione penale transnazionale che progressivamente sta delegittimando il potere legislativo degli stati. In nome di uno stato di emergenza ormai divenuto quotidianità e della sicurezza internazionale, si attuano misure repressive nei confronti dei cittadini lesive delle fondamentali libertà democratiche sancite dalle costituzioni degli stati. Con l’avanzata della cultura woke, dell’ideologia gender, del transumanesimo e in nome della tutela dell’LGBTQ, la giurisprudenza penale internazionale crea sempre nuove fattispecie di reato che si rivelano nei fatti misure repressive della libertà di opinione e associazione. Anche la vita personale e il nucleo familiare sono sempre più soggette a direttive di autorità esterne. L’individualismo esasperato ha accentuato la conflittualità legale nell’ambito sociale. Nella fase pandemica tali tendenze si sono rese evidenti.
Trattasi di fenomeni strettamente connessi all’affermarsi del capitalismo della sorveglianza, la cui natura repressiva è destinata ad accentuarsi con la rivoluzione digitale del Grande Reset. Si prefigura infatti una società totalitaria, con una governance basata sull’espandersi del controllo sociale di massa mediante l’implementazione dell’identità digitale in varie forme e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Tale involuzione totalitaria del capitalismo era già stata diagnosticata da Danilo Zolo che nel suo libro “Globalizzazione”, Edizioni Laterza 2004, ha definito questa trasformazione come il passaggio dallo “stato sociale allo stato penale”: “Mentre neppure gli Stati occidentali riescono ad attenuare le svantaggiose conseguenze sociali dei processi di globalizzazione a carico di una parte dei propri cittadini, essi si mostrano forti nell’esercizio della sovranità interna per imporre ai cittadini un ordine sempre più rigido all’insegna dello slogan della ‘tolleranza zero’. Ciò che non viene più assolutamente tollerato non è, in generale, la devianza: lo sono i comportamenti specifici, anche di lieve entità, dei soggetti marginali – degli “stranieri” – che non accettano di adeguarsi ai modelli dominanti del conformismo sociale”.
Con la globalizzazione è emersa la riviviscenza di un universalismo giusnaturalista, che, se nei secoli passati aveva fondamento teologico, è invece oggi strutturato sulla base ideologica oligarchico – liberista delineata dal progetto di pianificazione globalista – tecnocratico del Grande Reset.
Dominio globale e dominio universale
La globalizzazione ha rappresentato l’inclusione nell’Occidente del resto del mondo. L’imperialismo coloniale britannico, che si fondava sul dominio dei mari, ha avuto come erede legittimo la potenza talassocratica americana. L’integrazione dei mercati e la divisione internazionale del lavoro sono gli elementi strutturali di un sistema capitalista con cui si è affermato il primato americano nel mondo.
Esistono tuttavia rilevanti differenze tra il dominio capitalista degli imperi dei secoli scorsi e quello americano. Infatti, se l’imperialismo eurocentrico era globale, quello americano ha una natura universalista. Il dominio globale europeo era estrattivo, sfruttava cioè le risorse umane e materiali dei paesi colonizzati, ma non prevedeva l’integrazione politica e culturale delle colonie nella civiltà occidentale. L’egemonia non escludeva dunque la sussistenza di un pluralismo culturale. Il dominio universale americano invece implica l’imposizione a livello mondiale di un unico modello economico, politico e culturale.
Quello americano è un imperialismo culturale che presuppone un primato degli USA di carattere morale, prima che economico, tecnologico e politico. L’americanismo è un modello culturale diffuso nel mondo mediate il soft power statunitense, con la finalità di unificare i popoli della terra entro una società globale intesa come un unico spazio americano. Gli stessi paesi del BRICS, pur contrapponendosi nella geopolitica mondiale all’unilateralismo americano, sono essi stessi soggetti al colonialismo culturale americano. L’americanismo attualmente governa le menti, lo spirito, i gusti, le mode, i costumi, la cultura e la mentalità consumista dei popoli del mondo.
Gli USA non si definiscono un impero, dato che la loro fondazione avvenne con una guerra di indipendenza anticoloniale. L’espansionismo americano fu concepito come una missione che comportasse l’assimilazione del mondo ad un modello politico, economico e culturale americano concepito come universale. In questa ottica deve essere interpretata la storia degli USA, come un progressivo e illimitato espansionismo che ebbe inizio con la conquista dei territori del West, per poi identificarsi con nuova frontiera kennediana e infine realizzarsi compiutamente con il dominio globale dopo la fine dell’URSS.
Il globalismo giuridico
Il dominio universale implica necessariamente l’imposizione a livello mondiale di un “globalismo giuridico”. L’idea di una comunità mondiale unificata da un unico ordinamento giuridico si basa sul riconoscimento di principi etici universali quali i diritti dell’uomo, ereditati dalla cultura giusnaturalistico – liberale europea. Appare quindi evidente come la globalizzazione si configuri come una forma di colonialismo politico – culturale e come una ideologia che ha legittimato l’esportazione armata della democrazia nel mondo. L’Occidente con la globalizzazione ha inteso imporre al mondo la propria cultura della modernità fondata sull’individualismo, sul razionalismo filosofico, sulla ideologia progressista liberale.
Il fallimento della globalizzazione consiste proprio nell’impossibilità di imporre ai popoli del mondo una cultura universalista e cosmopolita basata su concezioni filosofico – giuridiche astratte, non assimilabili dal resto del mondo, perché estranee alle altre culture e rivelatesi incompatibili con esse.
Con il globalismo si è riproposto in versione post – moderna il primato del vecchio eurocentrismo ormai rivelatosi antistorico. L’universalismo astratto liberale, che concepisce il globalismo giuridico come un valore unificante dell’intera umanità è destinato alla sconfitta, dinanzi all’irriducibile pluriverso politico e culturale del mondo. Tale prospettiva è ben delineata da Alain de Benoist nel libro “Critica del liberalismo”, Arianna Editrice 2019: “L’ideologia dei diritti dell’uomo vuole conoscere solo l’umanità e l’individuo. Ora, il politico si articola su ciò che si situa tra queste due nozioni: i popoli, le culture, gli Stati, i territori; perciò implica l’esistenza di frontiere, senza le quali la distinzione tra cittadino e non cittadino (o straniero) è priva di significato. L’umanità non è un concetto politico: non si può essere “cittadini del mondo”, perché il mondo politico non è un universo, ma un pluriverso: il politico implica una pluralità di forze in campo. L’umanità non può essere un’unità politica, perché non può avere un nemico su questo pianeta, se non in senso metaforico. Il liberalismo, perciò, può dichiarare guerra solo a coloro che rappresenta come “nemici dell’umanità”, rendendo nello stesso tempo la guerra più spaventosa che mai. Schmitt cita, a questo riguardo, la frase attribuita a Proudhon: «Chi dice umanità, vuole ingannare». Se ne deduce, come scrive Michael J. Sandel, che «dei principi universali sono inadatti a fissare un’identità politica comune». «Un pianeta definitivamente pacificato», scrive ancora Carl Schmitt, «sarebbe un mondo senza discriminazione tra amico e nemico, e di conseguenza un mondo senza politica»!”.
Luci ed ombre del nuovo ordine mondiale multipolare
La fine dell’era globalista si identifica con il declino dell’eccezionalismo americano. La potenza americana, a causa delle ripetute sconfitte militari e della temibile minaccia economica e tecnologica cinese al suo primato, appare afflitta da una crisi identitaria interna, che coinvolge i propri valori fondativi, la sua vocazione missionaria universalista, la credibilità delle sue istituzioni, la legittimazione politica di un sistema democratico divenuto sempre più elitario.
In realtà, negli USA e nella UE, l’economia globalizzata, con le delocalizzazioni industriali, i tagli al welfare, la fine dei ceti medi e la precarizzazione del lavoro, ha generato diseguaglianze sociali sempre più marcate e malcontento popolare generalizzato. Gli USA, da primo paese produttore mondiale, si sono trasformati in una società di consumatori e sono divenuti meta di investimenti esteri, allo scopo di generare i flussi finanziari necessari a sostenere il loro mega debito pubblico e una bilancia commerciale perennemente deficitaria. Il declino americano è accentuato inoltre dal processo di dedollarizzazione dell’economia mondiale messo in atto dalle potenze emergenti del BRICS. Nel mondo multipolare l’Occidente sembra destinato all’emarginazione.
Pertanto negli USA è in corso un processo di rilocalizzazione industriale che prevede politiche di incentivi al rimpatrio della produzione e misure protezionistiche intese salvaguardare il primato tecnologico americano, specie nell’innovazione green.
Al declino progressivo dell’Occidente farà seguito l’emergere di un nuovo mondo multipolare suddiviso in aree di influenza continentali. Con il nuovo ordine multipolare, la diplomazia degli stati tornerà ad essere protagonista nella geopolitica mondiale. La globalizzazione, intesa come interdipendenza economica tra gli stati continuerà a sussistere, ma sarà circoscritta alle rispettive aree continentali. Il tramonto della globalizzazione si identifica con la fine del primato universalistico occidentale.
Un nuovo ordine mondiale potrà sussistere nella misura in cui potrà essere garante dell’indipendenza dei popoli e della sicurezza mondiale. Il declino dell’Occidente è dovuto al suo irriducibile unilateralismo, alla sua congenita incapacità di comprendere e legittimare come propri interlocutori paritari altri soggetti della geopolitica mondiale. L’Europa con la sua servile ignavia e gli USA con il loro preteso primato politico e morale nel mondo hanno reso l’Occidente responsabile della guerra ucraina. Le basi di una nuova geopolitica mondiale dovranno essere del tutto diverse. Come afferma John Florio nell’articolo “Geopolitica come relazione (apologia di Diodoto)” apparso sul numero 05/2023 di “Limes”: “Considerando gli effetti delle incomprensioni tra Stati (le guerre), c’è una ragione per cui in politica estera le percezioni contano spesso più della realtà. Continuare a ignorarle non aiuterà a risolvere la crisi, ma al contrario ad approfondirla.
Se è così, l’inutile strage ai confini d’Europa potrà essere fermata solo tornando a pensare la politica estera come un’arte che si declina al plurale. Ovvero tenendo debitamente in conto le prospettive e le percezioni altrui: soprattutto quando non le si condividono. La diplomazia implica per antonomasia la capacità di comprendere gli interessi e le ragioni dell’avversario. E quindi di fare compromessi. Nella consapevolezza che «conflitti tra le società e internamente ad esse si sono verificati fin dagli albori della civiltà, (…) e non solo tra le società che non si comprendono, ma anche tra quelle che si comprendono fin troppo bene» [H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015, N.d.R.]”.
Il futuro mondo multipolare è tuttavia denso di incognite e di aspetti ancora oscuri. Infatti, sembra attualmente assai improbabile che con il nuovo ordine multipolare venga meno il sistema capitalista e soprattutto la sua evoluzione oligarchica e pianificatrice, oltre all’ideologia green e l’avvento della post – modernità con il transumanesimo e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Processi di trasformazione in cui la Cina ha assunto un ruolo di primo piano. La post – modernità costituisce l’eredità storica della globalizzazione.
Il mondo multipolare potrà rappresentare una sfida che generi la fuoriuscita dell’Europa dalla post – storia e dal nichilistico vuoto di senso che affligge oggi la società occidentale? Il mondo multipolare saprà riaffermare i valori identitari dei popoli e porre fine alle trasformazioni antropologiche della post – modernità incombenti? Un multipolarismo che consista nella riproduzione su scala continentale del decadente globalismo occidentale non è davvero auspicabile.