Il Nagorno-Karabakh fu uno dei tanti conflitti irrisolti riemersi dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Anche se adesso può sembrare che la questione del Nagorno-Karabakh sia stata chiusa con la vittoria dell’Azerbaijan, le tensioni non cesseranno. Essa si è verificata nel momento in cui gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia, la Turchia competono proprio per la supremazia in questo quadrante, regione che dopo l’invasione russa dell’Ucraina è diventata crocevia indispensabile verso la ricchezza energetica e mineraria dell’Asia centrale.
Anche la regione caucasica ed i suoi conflitti sono quasi sempre ignorati o minimizzati dai media europei, come, per altro, accade per il continente africano. Eppure anche questo è un quadrante della massima importanza strategica nella geopolitica mondiale. La regione è complessa, divisa in nazioni, riconosciute o meno, in enclavi ed exclavi, in corridoi transnazionali. Questa frammentazione ed instabilità ha fatto si che all’indomani del crollo dell’impero sovietico, le grandi potenze, mondiali o regionali, cercassero di condizionare pesantemente popolazioni e nazioni a loro esclusivo interesse.
Non a caso situazioni che accadono lontano da qui, sono spesso il riverbero di mutazioni geopolitiche di questi territori. Potremmo citare ad esempio gli ultimi attacchi ad Israele da parte delle formazioni palestinesi supportate dall’Iran, che è stato messo in difficoltà non solo dagli accordi arabo-israeliani, ma anche dal massiccio aiuto israeliano all’Azerbaigian nella guerra per il Nagorno-Karabakh. Israele ha, infatti, un grande interesse per quest’area, sia per il petrolio che per la rilevante alleanza anti iraniana. Sebbene Israele, un tempo povero di risorse, disponga ora di gas naturale in abbondanza al largo delle sue coste mediterranee, l’Azerbaigian fornisce ancora almeno il 40% del fabbisogno petrolifero israeliano. Israele si è rivolto ai giacimenti offshore di Baku alla fine degli anni ’90, creando un oleodotto attraverso l’hub di trasporto turco di Ceyan che ha isolato l’Iran, che all’epoca capitalizzava il petrolio che scorreva attraverso i suoi oleodotti dal Kazakistan verso i mercati mondiali. Non a caso gli esperti stimano che Israele abbia fornito all’Azerbaigian quasi il 70% del suo arsenale militare tra il 2016 e il 2020, dandogli un vantaggio decisivo contro l’Armenia e contemporaneamente stimolando la grande industria della difesa israeliana. Ma in questo conflitto è anche importante la nuova postura russa, oggi costretta a sgravarsi del peso delle problematiche ereditate dal regime precedente. Questo però non significa che in prospettiva non sia pronta (o obbligata) ad un nuovo controllo del suo estero vicino. In tal senso va sottolineato che anche la guerra di cui ci occupiamo oggi non può che inserirsi nell’attuale fase storica, con i tre imperi, statunitense, russo e cinese, alle prese con crisi interne e frizioni militari, che li rendono particolarmente concentrati in scenari geopolitici ben precisi e che, conseguentemente, li rendono meno presenti ed attenti all’intero globo.
La vittoria dell’Azerbaijan risuona, infatti, ben oltre il Caucaso meridionale ed arriva nel momento in cui gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia, la Turchia competono proprio per la supremazia in questo quadrante, regione che dopo l’invasione russa dell’Ucraina è diventata crocevia indispensabile verso la ricchezza energetica e mineraria dell’Asia centrale. Ciò significa non solo che la storia del conflitto tra armeni e azeri non è finita, ma che non è più solo una questione periferica dello spazio post-sovietico. Poi chiaramente in questa guerra ci sono state anche motivazioni locali altrettanto importanti, come la diversa origine etnico religiosa delle popolazioni: gli azeri, infatti, sono di religione musulmana a maggioranza scita e vantano legami con i tatari ed i turchi e fanno parte del loro progetto imperiale, mentre gli armeni sono a maggioranza cristiana ed hanno origini indoeuropee. E proprio su queste differenze hanno fatto leva le potenze interessate a quei territori.
Ma cosa è accaduto di preciso nella repubblica dell’Artsakh, nome armeno del Nogorno Karabakh? Quale è stata la sua storia? E perchè questa nuova guerra tra Armenia ed Azerbaijan?
Nel corso del tempo la regione del Nagorno-Karabakh è stata sotto il controllo di vari imperi: persiano, turco, russo, ottomano e, più recentemente, sovietico. Nel 1917, sulla scia del crollo dell’Impero russo, Armenia e Azerbaijan dichiararono l’indipendenza e rivendicarono il Karabakh – insieme ad altre due regioni etnicamente miste, il Nakhchivan e il Zangezur. In seguito a questa disputa scoppiò un conflitto nel 1920, ma prima che ci fosse un vincitore l’Unione Sovietica conquistò l’intero Caucaso e il Nagorno-Karabakh diventò, per sua decisione, una regione autonoma (Oblast’) all’interno della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan.
Ma le tensioni etniche esplosero nuovamente nel 1988 nel contesto della disintegrazione sovietica, culminando in quella che sarebbe diventata nota come la prima guerra del Karabakh. La guerra si concluse nel 1994 con la vittoria degli armeni, che presero il controllo non solo del Nagorno-Karabakh, ma anche di ampie aree del territorio azero che lo circonda. Dopo sei anni, trentamila morti e un milione di sfollati (in gran parte azeri), la guerra era finita. Era la prima pulizia etnica.
In assenza di un trattato di pace gli armeni locali proclamarono la Repubblica di Artsakh, uno stato non riconosciuto pienamente neanche dall’Armenia stessa, ma de facto indipendente. Così il Nagorno-Karabakh diventò uno dei tanti conflitti irrisolti riemersi dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Durante questo periodo Yerevan (Armenia) formò una partnership di sicurezza con Mosca – che tuttavia vendeva armi a entrambe le parti – mentre Baku sviluppava i suoi legami storici con Ankara.
L’equilibrio ha iniziato a spostarsi in favore degli azeri dopo il 2010, poiché la ricchezza energetica del paese e il sostegno turco gli hanno permesso di rafforzarsi economicamente e politicamente, fino a raggiungere un significativo vantaggio militare sull’Armenia. Alla fine del 2020 l’Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia e ben armato anche da Israele (in funzione anti-iraniana), ha lanciato un’offensiva che gli ha permesso di reclamare gran parte del territorio del Nagorno-Karabakh e il territorio circostante, che l’Armenia aveva preso nel 1994.
La seconda guerra del Karabakh è stata molto sanguinosa, un mese e mezzo di scontri con più di seimila morti. La tregua fu mediata dalla Russia, che inviò duemila soldati per una missione di peace-keeping a tutela del corridoio di Lachin, l’unica strada che collegava il Karabakh all’Armenia. Ma a dicembre 2022 e nei nove mesi successivi, un gruppo di azeri in abiti civili ha bloccato il corridoio di Lachin, mettendo di fatto sotto assedio il Nagorno-Karabakh per costringere i leader dell’Artsakh al tavolo del negoziato, violando l’accordo di cessate il fuoco e causando una spaventosa crisi umanitaria.
Questo gruppo di sedicenti “ambientalisti” protestavano, almeno formalmente, contro l’attività estrattiva di una miniera d’oro locale, il tutto sotto gli occhi dei “dissuasori” russi, che si son ben guardati dall’intervenire. Poi ad aprile Yerevan ha annunciato che avrebbe rinunciato alle rivendicazioni sul Karabakh se Baku avesse garantito i diritti degli armeni che ci vivevano. Ma ormai era troppo tardi. Il 19 settembre l’Azerbaijan ha deciso di lanciare comunque un’offensiva per prendere il pieno controllo del Nagorno-Karabakh, costringendo le autorità dell’Artsakh ad arrendersi. Baku ha promesso agli sconfitti l’amnistia e la pacificazione, ma in pochi sono rimasti. Nel giro di pochi giorni centoventimila persone (più dell’ottanta per cento della popolazione armena locale) hanno lasciato per sempre il Nagorno-Karabakh temendo persecuzioni e operazioni di pulizia etnica.
Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, è così diventata una città fantasma. In seguito all’occupazione, il Servizio di Sicurezza dell’Azerbigian ha annunciato l’arresto di Arayik Harutyunyan, ex-presidente dell’autoproclamata Repubblica, già a capo del governo separatista durante il conflitto armato del 2020, che si era dimesso all’inizio di settembre, poco prima dell’offensiva di Baku, condizione che non è stata sufficiente ad evitargli le manette, scattate anche se la regione, e tutti i suoi organi istituzionali, formalmente non esistevano già più.
Anche se adesso può sembrare che la questione del Nagorno-Karabakh sia stata chiusa una volta per tutte con la vittoria azera, uno scontro potenzialmente più grande tra Yerevan e Baku potrebbe arrivare da un’altra regione: il Syunik, la provincia armena meridionale, che separa il territorio autonomo azero del Nakhchivan dal resto dell’Azerbaijan. Questa exclave azera, abitata da circa 460mila persone, non ha sbocchi sul mare, condivide un piccolissimo confine con la Turchia e due confini molto più grandi con l’Armenia e l’Iran. E dunque non è un caso se la richiesta di Aliyev, attuale Presidente dell’Azerbaigian, di un corridoio di trasporto per collegare la sua nazione al Nakhchivan attraverso la provincia meridionale armena del Syunik preoccupa Yerevan, che in caso di rifiuto teme un altro attacco militare da parte degli azeri. Baku e Ankara vorrebbero, infatti, istituire il famoso corridoio di Zangezur per collegarsi all’exclave attraverso la provincia armena di Syunik senza passare per posti di blocco di frontiera.
Questo progetto è un obiettivo turco-azero dal 2020, considerato necessario per riunificare il grande mondo turco. Il corridoio non solo collegherebbe la Turchia e l’Azerbaijan, ma creerebbe anche una nuova rotta commerciale strategica tra Europa, Medio Oriente, Asia centrale e Cina. Una rotta turca che aggirerebbe completamente la Russia. Non a caso, per ribadire l’importanza strategica del Nakhchivan, Aliyev ed Erdogan hanno inaugurato un nuovo gasdotto transfrontaliero, che collegherà il Nakhchivan con la regione turca di Igdir. Yerevan si oppone al corridoio Zangezur poiché lo considera una limitazione della sua sovranità; fosse per lei utilizzerebbe anche la forza militare per respingere qualsiasi tentativo turco e azero di realizzarlo contro la sua volontà, ma come si è visto Yerevan ad oggi non ha la forza di contrastare militarmente nessuno. Anche se non è chiaro fino a che punto vuole spingersi l’Azerbaijan, sta di fatto che la proposta rischia di isolare l’Armenia dall’Iran, che si oppone all’interruzione delle sue vie di accesso a nord verso la Russia.
La provincia del Syunik ospita anche preziose risorse minerarie, tra cui rame e molibdeno, che l’anno scorso hanno fatto incassare a Yerevan ottocentocinquanta milioni di dollari in esportazioni. Fra l’altro nel post guerra, le tensioni tra Armenia e Russia stanno precipitando, aumentando il senso di vulnerabilità del governo armeno. Mosca vorrebbe sfruttare la disperazione armena per sostituire il governo di Pashinyan, democratico, riformista e relativamente filo-occidentale e sostituirlo con un governo autoritario fedele al Cremlino. Mosca ha, infatti, abbandonato il suo ruolo di mediatrice avuto fin dall’inizio del conflitto scoppiato nel 1988 e per quanto la Russia rivendichi tuttora il diritto di mantenere i suoi duemila peacekeepers presenti sul territorio per monitorare la situazione, ha di fatto lasciato che l’Azerbaigian riprendesse il controllo del Nagorno, abbandonando l’Armenia.
E’ così che si apre una nuova fase di aperta «riconquista» dei territori ex sovietici. Altra questione poi è vedere se la Russia può permetterselo e chi eventualmente vi si opporrà nel Caucaso e altrove. Più la guerra in Ucraina andrà avanti senza un significativo sbocco, più a Mosca sembrerà inevitabile puntare a rafforzare controllo e influenza sui propri vicini, soprattutto se tentati dal cercare nuove alleanze. Dopo la Bielorussia, è il turno dell’Armenia, da sempre l’altro vicino più vulnerabile di Mosca, adesso a maggior ragione con un governo nazionale annientato dalla perdita del Nagorno-Karabakh e decine e decine di migliaia di russi che nell’ultimo anno e mezzo si sono installati a Erevan. Per questa ragione, sostenere che con la fine della contesa per il Nagorno-Karabakh la Russia abbia perso peso nel Caucaso è più che prematuro, nonostante l’influenza crescente della Turchia. E’ evidente che l’Armenia dinanzi al mancato aiuto russo sta cercando disperatamente di allacciare contatti con l’occidente, in particolare con Stati Uniti e Francia. E’ anche per questo che l’incontro tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev per un accordo di pace definitivo, che avrebbe dovuto svolgersi in Spagna, con la mediazione di Francia, Germania e Unione europea è saltato. L’incontro è stato annullato per decisione di Aliyev, che avrebbe voluto che all’incontro partecipasse anche la Turchia (non invitata dagli europei). Baku si è anche lamentata per la posizione di Parigi, che ha annunciato nuove forniture di armamenti a Yerevean. L’assenza di un accordo di pace effettivo rischia così di far precipitare la regione in una nuova crisi.
Dinanzi a tutto questo le Nazioni Unite e la UE hanno nuovamente mostrato tutta la loro impotenza. Ma questo non stupisce più, almeno chiunque tenti un minimo di corretta analisi geopolitica. Del resto, l’ offensiva di Baku ha una coincidenza temporale sospetta con l’accordo sottoscritto lo scorso luglio con la Commissione europea, quando la presidente Ursula von der Leyen si recò nel Paese per stringere la mano a Ilham Aliyev, il leader dell’Azerbaigian, arrivato al potere nel 2003 dopo 10 anni di governo del padre. Quella stretta si era poi tradotta in un aumento del 30% delle esportazioni di gas dai giacimenti azeri all’Europa attraverso il Tap: 10-12 miliardi di metri cubi diretti in Grecia e Italia entro il 2022 per sostituire le forniture russe. Inoltre, Bruxelles e Baku sono sulla buona strada per finanziare il raddoppio del gasdotto transadriatico. Diversi osservatori internazionali avevano previsto che l’intesa con l’Ue, unita al supporto della Turchia, avrebbe riacceso la fiamma del conflitto azero-armeno. Ed infatti.
E l’Italia? Anche il nostro paese è una delle potenze coinvolte nel conflitto caucasico, anche se “indirettamente”. L’Azerbaijan rappresenta, infatti, uno dei Paesi dai quali passa la strategia di differenziazione delle forniture energetiche italiane. Più del 10% del gas importato in Italia (tramite Eni e Snam) è azero e rappresenta il 50% della produzione totale di Baku. Quella italo-azera è una partnership consolidata, divenuta ancora più importante con lo scoppio della guerra in Ucraina, quando Roma ha dovuto tagliare i rapporti energetici con Mosca, rivolgendosi a stati come l’Algeria e, appunto, l’Azerbaijan.
Di fronte alla crisi energetica ed ai rischi connessi per l’economia e l’industria, l’Italia sta seguendo una linea pragmatica, volta a tutelare soprattutto gli interessi nazionali, nella prospettiva di proseguire nel progetto di trasformare la penisola nell’hub gasiero d’Europa. Ma non solo questo: il rapporto è molto più stretto se consideriamo il coinvolgimento di numerose aziende italiane in vari settori dell’economia azerbaigiana, compresi i progetti di ricostruzione nel Karabakh e nello Zangazur orientale in Azerbaigian. E poi il legame con gli italiani orientato fin da subito ad ottenere forniture militari: Leonardo ha stipulato con l’Azerbaijan un contratto per la fornitura alla propria aeronautica di aerei da trasporto tattico Alenia C-27J Spartan, accordo perfezionato nel giugno scorso.
Ma i contatti in questo ambito erano già iniziati nel 2012 e si erano rafforzati nel 2020, poco prima dello scoppio della guerra contro l’Armenia per il Nagorno Karabakh. Gli interessi energetici ed industriali-militari in Azerbaijan si ricollegano ad una lunga tradizione della politica estera italiana che affonda le sue radici già dal periodo del regno di Sardegna nel solco della diplomazia cavouriana, che l’avevano portata ad interessarsi al lontano Caucaso. Politica decaduta nel secondo millennio e che si riaffaccia oggi, spinta dalla necessità energetica. Negli ultimi anni si è avuto un deciso “salto di qualità” nelle relazioni bilaterali tra Roma e Baku.
Ricordiamo sopratutto gli accordi sul gasdotto Trans-Adriatic Pipeline (TAP), che approfondirà l’interdipendenza tra Italia e Azerbaigian ed il contratto tra Ansaldo Energia e il maggiore produttore di energia elettrica della Repubblica dell’Azerbaigian, Azerenerji. L’azienda italiana fornirà quattro turbine a gas AE94.3A, per un valore di oltre 160 milioni di euro. Inoltre il raddoppio del Tap è un obiettivo del governo Meloni, che sull’energia punta forte, anche in relazione agli intrecci con il Piano Mattei. L’Italia cerca così di farsi spazio per dare solidità ai propri interessi nazionali e questo sarebbe pure concepibile, molto meno lo è se per farlo, al solito, si deve passare sulla pelle e sulle vite della classe subalterna, spinta ad uccidersi reciprocamente per gli interessi del denaro e del potere, “compari” che sanno bene come utilizzare differenze e rivalità generate dal bisogno e dalla mancanza di uno spirito solidale. Le borghesie nazionali coerentemente difendono i loro interessi, sono invece i popoli delle nazioni che a tutt’oggi subiscono passivamente quelle politiche, a volte, addirittura, facendole proprie. Dovremmo sempre ricordarci che nel Caucaso o in Israele o in Ucraina o nelle cento guerre che esistono al mondo, combatte chi non ha voce, chi viene convinto di difendere se stesso ed i propri interessi, mentre, invece, difende quelli della classe egemone.
La guerra, si sa, è necessità del denaro globalizzato, sempre alla disperata ricerca di distruzioni su cui ricostruire nuovi rapporti di forza e lucrose speculazioni. Anche solo avere coscienza di tutto questo darebbe forza ad un progetto complessivo di cambiamento, per una società diversa, fondata su equità e soddisfazione dei bisogni reali.
Invece la cultura dominante porta all’appiattimento dei giudizi, all’ignoranza per fatica di apprendimento, alla tendenza a volgere le spalle alle tragedie belliche come fossero parte integrante dell’umana esistenza. Ma così non è. Un’altra società, lo ripetiamo da sempre. è invece possibile.