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Xi Jinping e l’arte della terraformazione

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La Cina sta compiendo una vera e propria terraformazione per costruire ed ampliare grandi isole artificiali. L’ampia azione di terraformazione ha suscitato ovviamente le proteste degli USA e di tutti i paesi che avanzano pretese sull’area. In questa situazione di frizione tra espansionismo cinese e contenimento americano, Europa e Italia rischiano seriamente di trovarsi coinvolte in un nuovo conflitto, dopo quello in Ucraina. 

Nel precedente numero della rivista avevamo posto l’accento sull’importanza delle isole per il controllo strategico dei mari, principio di base della geopolitica. Di ciò parlando avevamo anche sottolineato l’importanza di Taiwan nello scontro in atto già da anni tra Usa e Repubblica Popolare di Cina: l’isola, infatti, è la prima barriera di contenimento del Dragone che i paesi Atlantici sostengono, pur non riconoscendola formalmente. Il problema di Formosa si è ripresentato, in maniera meno sfumata, anche al XX Congresso del Partito Comunista, che ha reso più solide le basi della politica di Xi Jinping, approvando la sua rielezione. Xi ha ribadito che il Pcc non ha mai promesso di rinunciare all’uso della forza per “la riunificazione” e questo ad appena pochi mesi dalla visita della ex presidente della Camera Usa Nancy Pelosi, presenza che ha fatto infuriare Pechino fino al punto di dare vita a manovre militari senza precedenti intorno all’isola. Taiwan, infatti, è considerata dalla Repubblica Popolare una parte “inalienabile” del suo territorio, da riunificare, se necessario, anche con la forza, pur non avendola mai politicamente controllata. Nell’analisi di questi accadimenti quello che è stato sottovalutato da parte dei media occidentali, forse interessatamente, è che non è stata la visita in sé a far infuriare Pechino, ma la sostanza di quella visita, ovvero l’appoggio scoperto e totale al Partito Progressista Democratico da parte degli statunitensi, viatico per le presidenziali dell’isola, che si terranno nel gennaio 2024.

Fra l’altro questo appoggio, che di fatto allontana la riunificazione pacifica, ostacola non poco la risalita del Guomindang (GMD), il partito nazionalista cinese che fu di Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek, che da anni sta provando a collocarsi come agente di stabilità sullo Stretto e come possibile anello di congiunzione tra Stati Uniti e Cina. Pechino, in realtà, ha “lavorato” sotterraneamente per anni con l’attuale opposizione, molto più morbida degli atlantisti al governo, sulla prospettiva di un’unica Cina. Pechino sin dai tempi della presidenza Ma, ha riqualificato il ruolo dei nazionalisti e identificato invece il DPP come la forza “malevola” che lavora per la “secessione”. Xi Jinping sa bene quanto in realtà sia diversa oggi la società taiwanese da quella della Cina continentale. Sopratutto sa quanto sia radicata nel campo occidentale, non soltanto politicamente ed economicamente, ma sopratutto dal punto di vista antropologico e culturale. Infatti già le generazioni post belliche si erano sentite a suo tempo più vicine alle antiche origini aborigene dei popoli austronesiani, che vivevano sull’isola prima della conquista cinese, che non alla sensibilità di una Cina “comunista”, che non ha mai controllato effettivamente il loro territorio e la loro cultura.

Poi con il passare dei decenni si è affermato nei giovani il culto dell’occidente e delle sue regole, decisamente lontane da quelle dei fratelli-coltelli continentali, un processo favorito anche dalla riscoperta delle tradizioni e dei modi di vivere legati in passato al dominio coloniale giapponese, che seppure non sia stato mai tenero nei confronti delle popolazioni autoctone, le ha nel tempo assorbite nella civiltà nipponica, facendole divenire parte integrante dell’impero, “elevandole” così dalla barbarie del continente. Insomma, conquistare Taiwan sfidando un intero popolo non sarà affatto semplice, giacché l’annessione pacifica pare una carta superata e quella militare, oltre che ad essere estremamente difficoltosa, vorrebbe dire misurarsi con l’egemone statunitense, in una competizione ancora svantaggiosa per il Dragone. Dunque, ad oggi, la linea di Pechino rimane quella dell’ultimo decennio, ovvero equilibrio ed espansione, utile in patria per cercare di colmare il divario tra costa e retroterra, utile all’estero per creare teste di ponte militari e vie commerciali, sia marittime che terrestri. Ecco allora che dopo Hong Kong e Macao si punta, senza troppo clamore, a controllare il Pacifico (leggi isole Salomone) o le vie marittime del Mar Cinese Meridionale.

E’ soprattutto questa parte di Oceano, a costituire oggi un vero e proprio terreno di scontro tra gli interessi di vari attori internazionali, tra i quali la Repubblica Popolare Cinese, il Vietnam, le Filippine, il Brunei, Taiwan e Malesia. Negli ultimi anni il quadro di tale regione è diventato sempre più delicato e cruciale, specialmente nella zona delle isole Spratly e Paracelso. In realtà le ostilità nel Mare Cinese Meridionale hanno radici che risalgono al 1947, anno in cui avviene la pubblicazione da parte del Kuomintang (KMT) della cartina che definisce la “linea degli undici punti”, diventati in seguito nove. “La linea dei nove punti” è composta da un insieme di segni tratteggiati che rappresentano le rivendicazioni della sovranità cinese nelle zone marittime del Brunei, Vietnam, Filippine e Malesia. L’arcipelago interessato è composto da una trentina di isolotti e una quarantina di atolli, tutti di ridottissime dimensioni.

È un territorio fondamentalmente inospitale, ma che desta grande interesse da parte degli stati del Sud Est Asiatico per le sue risorse energetiche e per il suo interesse strategico. La particolare attenzione rivolta a questa area è dovuta principalmente alle enormi potenzialità commerciali che possiede, nonché alla grande ricchezza di idrocarburi presenti nel fondale, dove giacciono infatti almeno 11 miliardi di barili di petrolio e 190 bilioni di piedi cubi di gas naturale. Inoltre rappresenta un’area particolarmente produttiva nell’ambito della pesca mondiale e una delle principali rotte marittime verso il nord-est asiatico. Per quanto concerne le Isole Spratly e Paracelso, la Repubblica Popolare Cinese si è scontrata più volte con il Vietnam per ottenerne il controllo. Fra tali conflitti è cruciale citarne due: la battaglia nel gennaio 1974 per le isole Paracelso, conclusasi con la vittoria cinese, e la battaglia nel marzo 1988 per le isole Spratly, nella quale una nave vietnamita, pronta a far sbarcare le proprie truppe nell’area, venne affondata dalla controparte cinese. Tuttavia nel luglio 2016, a seguito di un ricorso presentato dalle Filippine nel 2013, il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aja ha stabilito che le rivendicazioni cinesi nell’area rappresentano una violazione del diritto internazionale e, in particolare, della Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS).

Tale convenzione, firmata anche da Pechino (che però non ha riconosciuto il verdetto), stabilisce a 200 miglia nautiche dalla costa la EEZ, ovvero la zona economica esclusiva, nella quale uno Stato può esercitare il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse. Inoltre in aggiunta alle potenzialità economiche e commerciali del Mar Cinese Meridionale, questo è fondamentale per la sua importanza strategico-militare. La Repubblica Popolare Cinese è, infatti, particolarmente interessata a rendere la zona potenzialmente inaccessibile ad eventuali nemici in caso di conflitto, utilizzando coordinatamente radar, missili, sensori ed altre tecnologie, sopratutto attraverso i missili balistici antinave DF-21D, che hanno la particolare caratteristica di poter raggiungere i 4.000 km e di poter dunque minacciare basi distanti, come ad esempio la base militare statunitense a Guam. Lo scopo degli atolli nelle Paracel è in primo luogo proteggere la costa meridionale cinese e la strategica base militare di Yulin a Hainan. Non essendo sufficienti come ampiezza, da qualche anno la Cina sta compiendo una vera e propria terraformazione per costruire ed ampliare grandi isole artificiali.

Secondo le rilevazioni dei satelliti della Digital Globe pubblicate da Washington a giugno del 2015, la Cina aveva praticamente ultimato una pista d’atterraggio da 3 km costruita su un isola artificiale, creata dal nulla con sabbia, cemento e ferro, sulla barriera corallina conosciuta come Fiery Cross Reef. Al termine dei lavori le isole artificiali identificate saranno poi ben sette. Sono successivamente emerse nuove immagini delle sofisticate basi militari, che mostrano nei dettagli vasti hangar, cupole radar e un aereo militare KJ-500, oltre a campi da tennis, una piscina e una pista da corsa. Le foto mostrano anche torrette di cannoni navali e un sistema antimissile CIWS; attrezzature che garantirebbero la difesa contro le minacce aeree a bassa quota, come quelle portate da droni, missili da crociera e attacchi condotti da navi nemiche. Le armi e le torri di guardia sono state accompagnate da caserme e alloggi, tant’è che i media statali cinesi, come la tv di stato Cgtn, hanno già detto più volte che sulle isole sarebbe presente una popolazione di oltre 5.000 ufficiali e soldati, con le loro famiglie. L’ampia azione di terraformazione ha suscitato ovviamente le proteste degli USA e di tutti i paesi che avanzano pretese sull’area. Nell’ottobre dello stesso anno l’Amministrazione USA ha deciso di far effettuare alla US Navy una serie di pattugliamenti ravvicinati agli isolotti artificiali cinesi al limite delle 12 miglia nautiche, decisione che ha rappresentato un vero guanto di sfida nei confronti della Cina. Si è poi accertato che Pechino ha completamente militarizzato tre delle isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale. Fu Qianshao, un esperto militare cinese, ha detto che chi ha spinto di più per la militarizzazione nel Mar Cinese Meridionale in realtà sono gli Stati Uniti, poiché l’esercito americano ha condotto spesso operazioni militari in questo mare, anche se il Paese è lontano dalla regione: “Non è ragionevole che gli Stati Uniti impediscano alla Cina di schierare strutture militari difensive sul proprio territorio, mentre allo stesso tempo gli Stati Uniti inviano quotidianamente navi e aerei da guerra alle porte della Cina nel Mar Cinese Meridionale”.

E il signor Qianshao non avrebbe poi neanche tutti i torti! Ovviamente queste altro non sono che le contrapposte logiche tra l’egemone e la superpotenza terrestre in ascesa, disperatamente alla ricerca dei suoi spazi vitali sugli Oceani. In realtà la Cina Popolare non ha interesse ad alzare il livello di scontro più di tanto, avendo tutto l’interesse a muoversi sotto traccia, nella speranza di conquistare terreno ed influenza non solo in questa zona, ma anche lontano da essa, come in Africa, dove esiste la sola base militare cinese all’estero. Infatti dopo il Corno d’Africa il tentativo è quello di attestarsi in Nigeria, così da avere maggiori possibilità di controllare lo strategico Mar Mediterraneo, quel famoso Medioceano che è la vera porta d’ingresso dell’Europa e della Russia.

Sta di fatto che in questa situazione di frizione tra espansionismo cinese e contenimento americano, in nome di un multilateralismo di comodo (che maschera, invece, un perdurante unilateralismo Usa), Europa e Italia rischiano seriamente di trovarsi coinvolte in un nuovo conflitto, dopo quello in Ucraina. Gli entusiasmi degli alleati europei, nati negli ultimi anni dinanzi alle presunte aperture dell’Amministrazione americana, sono stati, in realtà, presto delusi, dato che la svolta geopolitica di Biden, oltre ad un rinnovato multilateralismo “di guerra” dell’Alleanza Atlantica, prevede anche una ridefinizione del ruolo della Nato in funzione del contenimento della Cina, che coinvolgerebbe obbligatoriamente gli alleati europei. Biden ha infatti prefigurato una cooperazione con le potenze militari del vecchio continente, che implicherebbe il trasferimento delle flotte UE nel Pacifico.

E con questo torniamo a bomba al sempre presente quesito: basta oggi un antimperialismo dalle forti tinte anti Nato ed anti Usa a risolvere il problema dell’oppressione del potere sulle masse diseredate del mondo? E’ sufficiente criticare la costante e globale pressione militare statunitense, il suo espansionismo militare e culturale, la sua posizione egemonica, quasi a far intendere che questo è il centro del problema, e che magari una sconfitta dell’egemone risolverebbe i problemi degli oppressi? Oppure, come anche io credo, in realtà le trasformazioni sociali epocali saranno possibili non tanto “con la fine del primato americano, ma unicamente con il superamento del sistema capitalista”?

 

 

 

 

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