Zelensky e Netanyahu basano la loro sopravvivenza politica sulla continuazione della guerra. Durare, durare, durare: questa è la loro parola d’ordine perché … finché c’è guerra, c’è speranza!
Il voto favorevole del Senato USA, con il quale si è approvato l’invio di ulteriori aiuti all’Ucraina per 61 miliardi di dollari e di oltre 26 miliardi ad Israele, getta ulteriore benzina sul fuoco di conflitti per i quali nessuno, almeno tra i governi del mondo occidentale, sembra avere la volontà di porre fine. Questa ulteriore prova di sostegno incondizionato da parte americana in termini economici e militari, rappresenta una vera e propria boccata d’ossigeno per Zelensky e Netanyahu, due figure inquietanti che basano la loro sopravvivenza politica sulla continuazione della guerra.
Il primo, con il pretesto del conflitto, ha assunto il ruolo di presidente – dittatore, mettendo fuorilegge i partiti di opposizione, sospeso a tempo indeterminato le elezioni, istituito la legge marziale, abrogato la libertà di stampa, vietato le attività religiose della chiesa ortodossa russa, considerata un’emanazione di Mosca. Per mantenersi al potere, Zelensky effettua periodiche epurazioni tra i suoi collaboratori ed i vertici militari, fa arrestare e processare per tradimento gli oppositori – tra i quali Petro Poroshenko, ex presidente della repubblica e leader del partito “Solidarietà”- oltre ad essere responsabile dell’attentato che ha provocato la morte di Dar’ja Dugina, figlia di Aleksandr Dugin. Malgrado una politica criminale, autoritaria, senza una parvenza di legalità e con la corruzione diffusa a tutti i livelli, grazie alla guerra, Zelensky può continuare a governare e dettare condizioni a nemici ed alleati.
Da parte sua, Netanyahu, dopo l’attacco del 7 ottobre, è violentemente contestato da larga parte dell’opinione pubblica israeliana che lo accusa di non averlo saputo prevenire e lo critica ferocemente per la gestione della liberazione degli ostaggi in mano ad Hamas. Da mesi sotto pressione, cerca di salvare la sua carriera politica facendo il duro per non perdere il sostegno dei partiti ultraortodossi su cui si poggia la maggioranza che sostiene il suo governo. Partiti che, approfittando del caos e della paura, spingono per espellere da Gaza e Cisgiordania i palestinesi, promuovendo e favorendo in tutti i modi la fondazione di nuovi insediamenti da parte di coloni ebrei. Ricordiamo che l’espansione delle colonie in Cisgiordania rappresenta uno dei punti forti del programma di questo governo. Bibi Netanyahu sa che, in caso di voto anticipato, sarebbe sconfitto e politicamente finito e per questa ragione vuole prendersi tutto il tempo necessario per presentarsi alle prossime elezioni vittorioso sul piano militare e come il capo della destra che ha risolto in modo definitivo la questione palestinese.
Per Biden, la crisi in Medioriente sta assumendo contorni veramente pericolosi. Il suo sguardo è puntato alle elezioni di novembre, quando si rigiocherà la Casa Bianca in uno scontro bis con Donald Trump e deve fronteggiare le contestazioni nelle università americane, diventate una polveriera, con continue manifestazioni antisemite, aggressioni agli ebrei e arresti degli studenti filo-palestinesi. Ci sono anche molti professori, schierati con i ragazzi, a ricordare le ragioni di una protesta che somma e incrocia sensibilità ed esigenze diverse: il diritto di espressione, il poter manifestare in ogni forma di protesta e rivendicazione. Slogan antisemiti hanno incendiato Harvard e Penn University già in ottobre; alla Gwu è comparso un cartellone con la scritta “Soluzione finale” ed i docenti hanno formato un cordone protettivo contro la polizia attorno ai ragazzi in assemblea, mentre alla Columbia University circolava un video nel quale si incitava a «combattere per uccidere» i sionisti che «non meritano di vivere». In alcuni volantini si accusava l’escalation della guerra alimentata dagli Usa e, su richiesta della presidenza, la polizia di New York, in assetto antisommossa, ha fatto irruzione operando decine di arresti e liberando la Hamilton Hall, uno dei principali edifici del Campus che nel ’68 rappresentava il simbolo della protesta contro la guerra in Vietnam. Alla Emory di Atlanta alcuni docenti sono stati addirittura arrestati e i video della polizia che li trascinava via sono diventati virali. La critica a Biden per il sostegno a Israele è sempre più dura e si chiede con sempre maggiore insistenza di chiudere i ponti e i finanziamenti con lo Stato ebraico; nonché lo stop ad usare i soldi dei contribuenti Usa per l’industria militare. La grande stampa americana, a cominciare dal “New York Times”, di proprietà di un ebreo, Arthur Gregg Sulzberger, incalza ogni giorno la Casa Bianca affinché trovi al più presto una soluzione alla crisi mediorientale in quanto potrebbe avere ripercussioni politiche gravissime in America. Biden è cosciente di come l’opinione degli universitari in rivolta sia condivisa da gran parte dell’area liberal del suo elettorato. D’altra parte queste proteste spingono verso Trump l’elettorato bianco e pro Israele.
Il presidente americano prova inutilmente, ormai da sei mesi, a spingere Netanyahu ad essere più conciliante, ma “Bibi” ha dimostrato una durezza fuori dal comune fino a ignorare palesemente gli ammonimenti della Casa Bianca. La sua posizione in patria è traballante ma è conscio di come l’estrema incertezza del momento impedisca la caduta del governo da lui presieduto, per cui procede dritto per la sua strada. Forse la questione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas e la minaccia di un mandato d’arresto spiccato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità commessi ai danni dei palestinesi, potrebbero rallentare la sua azione inducendolo ad accettare una tregua, ma non a farlo desistere dalle sue intenzione.
Insomma Zelensky e Netanyahu sono accomunati dalla stessa finalità: mantenere il potere a qualsiasi costo, incuranti delle tragedie che questo loro atteggiamento possa procurare. Durare, durare, durare: questa è la loro parola d’ordine perché … finché c’è guerra, c’è speranza! Naturalmente, per proseguire una guerra, occorre che qualcuno la combatta e questo crea inevitabilmente a Zalensky e Netanyahu un problema di non poco conto: la leva militare.
In Ucraina lo scorso 11 aprile la Verkhovna Rada ha approvato in seconda lettura il disegno di legge che riformerà le regole per il reclutamento dei civili nelle forze armate. Polemiche sono sorte per la cancellazione della clausola, inizialmente inserita, che prevedeva la smobilitazione dei soldati che hanno prestato servizio per 36 mesi e questa scelta sarebbe stata presa su suggerimento del comandante delle forze armate ucraine Oleksandr Syrsky che non vuole privarsi di veterani ben addestrati in una fase del conflitto così delicata, ma ha rappresentato un duro colpo per i soldati al fronte dall’inizio delle ostilità, suscitando polemiche e forte delusione tra coloro che fino adora hanno sostenuto il peso della guerra. L’approvazione del Parlamento arriva dopo un lungo iter, con una prima versione presentata a gennaio, una revisione a febbraio e quattromila emendamenti. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha già convertito in legge alcune disposizioni, come l’abbassamento dell’età per la coscrizione militare maschile da 27 a 25 anni ma già a partire dai 18 anni sarà possibile arruolarsi volontari, anche se non in prima linea, mentre resta invariata l’età massima di 60 anni. La propaganda del regime di Kiev parla di centinaia di migliaia di nuove reclute da inviare al fronte, per lo più uomini di 25-26 anni, che si apprestano a scendere in campo a fianco di chi già combatte l’aggressione militare russa. Si tratta di numeri inferiori rispetto ai 500 mila che aveva chiesto l’ex comandante in capo Valery Zaluzhny, ma ora la legge rende meno facile abbandonare le forze armate soprattutto per coloro, che sono al fronte dall’inizio della guerra e molti di loro non sono mai tornati a casa neanche per una licenza. La consapevolezza della corruzione diffusa che permetterà a chi ne ha i mezzi di evitare il servizio militare aumenta a dismisura il senso di frustrazione tra la gente comune. Quando in televisione scorrono le immagini di partite di calcio o di altri avvenimenti sportivi cui partecipano atleti ucraini e si vedono gli spettatori, in gran parte giovani atti alle armi, che cantano commossi l’inno nazionale manifestando grande spirito patriottico, con gli immancabili commenti retorici dei telecronisti, emerge tutta l’ipocrisia della situazione, in quanto la maggior parte di loro, anziché allo stadio, dovrebbe essere al fronte a combattere. Ma tant’è!
Il problema di Netanyahu riguarda invece l’esenzione dal servizio militare degli ebrei ultraortodossi. Questo esonero, che esiste dalla fondazione dello stato di Israele, è diventata una questione politica urgente dopo l’inizio della guerra con Hamas e l’invasione israeliana della Striscia di Gaza. Mentre centinaia di migliaia di israeliani laici sono stati richiamati in servizio nell’esercito come riservisti, moltissimi ebrei ultraortodossi hanno potuto evitare l’arruolamento grazie ad un privilegio di origine religiosa che però è ritenuto ingiusto dalla gran maggioranza della popolazione del paese. La questione è tutt’altro che nuova e genera polemiche da decenni nello stato di Israele. Il punto è che la dispensa per gli ultraortodossi non è una legge dello stato israeliano, ma avviene grazie a una serie di provvedimenti emanati dal governo come e di atti amministrativi rinnovati periodicamente. In questo contesto è intervenuta la Corte Suprema israeliana, che prima ha imposto al governo di regolarizzare questa condizione e poi, nelle scorse settimane, ha ordinato il blocco dei fondi pubblici agli studenti ultraortodossi che non fanno il servizio militare. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la questione dell’esenzione potrebbe mettere in discussione perfino la stabilità del governo. A febbraio la Corte Suprema israeliana aveva stabilito che il governo non ha il potere di garantire l’esonero agli ultraortodossi tramite provvedimenti amministrativi e aveva ordinato al governo di far approvare una legge in merito che regolarizzasse la questione. La Corte aveva dato tempo al governo fino al 1° aprile per presentare una legge e ufficializzare l’esenzione agli ultraortodossi ma finora i partiti che ne fanno parte non sono riusciti a trovare un accordo. Nel caso in cui si arrivasse alla scadenza il governo sarebbe costretto, almeno in teoria, a cominciare ad arruolare gli studenti ultraortodossi. Il governo ha chiesto una proroga di 30 giorni per cercare di dirimere la questione, ma non è ancora chiaro se la otterrà. La Corte ha ordinato di bloccare temporaneamente i fondi governativi agli studenti ebrei ultraortodossi che non fanno il servizio militare: l’esenzione prevede che questi non facciano altri mestieri e si dedichino esclusivamente allo studio dei testi sacri ebraici, e per questo ricevono uno stipendio dallo stato. Nel complesso, lo stato israeliano spende circa 400 milioni di dollari all’anno per finanziare le “yeshiva”, cioè le scuole religiose e gli stipendi pubblici agli studenti ammontano a circa un terzo dei fondi. In Israele tutti i cittadini che hanno compiuto i 18 anni, uomini e donne, sono obbligati a fare il servizio militare che dura 32 mesi per gli uomini e 24 per le donne e una volta terminato, a meno di ricevere esenzioni speciali (per ragioni di lavoro, di salute, o per le donne che hanno figli, per esempio), le persone sono iscritte nelle liste dei riservisti e possono essere richiamate per esercitazioni periodiche. Tutti questi obblighi però non valgono per la stragrande maggioranza degli ebrei ultraortodossi, cioè le persone che seguono l’interpretazione più rigida e molto spesso fanatica della religione ebraica. Soltanto alcuni di loro fanno parte dell’esercito ma per lo più perché si sono arruolati volontari: quasi tutti gli altri sono invece esentati. I giovani che sarebbero nell’età di fare il servizio militare sono circa 13 mila ogni anno, ma soltanto 1.200 entrano davvero nell’esercito, mentre tutti gli altri ottengono l’esenzione. La questione è diventata via via più controversa e divisiva, soprattutto agli occhi della maggioranza della popolazione israeliana che invece è costretta a fare un lungo e faticoso servizio militare.
Naturalmente Zelensky e Netanyahu non possono essere considerati i principali responsabili dei conflitti, essendo semplici burattini che, approfittando delle circostanze, per motivi personali, perseguono con pervicacia vie indicate da altri, in un quadro geopolitico più vasto, con potenze mondiali e regionali che si contendono il dominio e/o l’influenza in determinate aree. Un altro aspetto molto ma molto importante riguarda il potere dell’economia: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) – un istituto indipendente creato nel 1966, impegnato in ricerche su conflitti, armi, controllo delle stesse e disarmo – le risorse stanziate per le forze armate dai governi a livello globale, ammontano a 2.240 miliardi di dollari, pari al 2,2 % del PIL della totalità dei paesi. La classifica mondiale delle industrie produttrici di armi è dominata dalle aziende americane: prima la Lockeed Martin, con 59 miliardi di dollari di fatturato, seguita da Reytheon Technologies, Northop Grumman, Boeing e General Dynamics e probabilmente non è un caso che il Senato americano, dopo mesi di ostruzionismo, abbia alla fine approvato l’invio di ulteriori aiuti all’Ucraina. La lobby dell’industria degli armamenti si dimostra in grado di influenzare pesantemente perfino il Congresso degli Stati Uniti.
La guerra non si ferma e spiragli per una pace duratura a breve termine francamente non se ne scorgono. Lo spazio per l’ottimismo è veramente poco!