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USA: dissoluzione di una egemonia senza impero

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Il conflitto geopolitico della Guerra Grande tra l’Occidente americano e le potenze dei BRICS, si configura come una contrapposizione tra capitalismo cosmopolita occidentale e gli stati – civiltà dalla cultura identitaria. Tale contrapposizione si riproduce all’interno degli stati, tra le classi borghesi americaniste e i popoli, che rivendicano la giustizia sociale. Una nuova lotta di classe sta emergendo nel mondo, una conflittualità in cui si è realizzata una perfetta sintesi tra le rivendicazioni economico – sociali e quelle identitarie.

Fine dell’egemonia globale e dell’eccezionalismo americano?

L’America è vittima di se stessa. Il declino degli USA coincide con la percezione che essi hanno di se stessi, con il tramonto dell’eccezionalismo americano, quale mito universalista che ha indotto gli americani ad identificare il proprio destino con quello del mondo. L’egemonia americana si è da sempre ispirata al dogma teologico – politico del “destino manifesto” che, con il venir meno della credibilità del primato  americano nel mondo, si tramuta in fatalismo depressivo della decadenza, coinvolgendo tutto l’Occidente. Di riflesso, l’Europa, che ha accomunato il proprio destino a quello dell’Occidente, è stata contaminata da questo spirito fatalista americano, precludendosi ogni possibilità di assumere una soggettività geopolitica autonoma dagli USA. Ora che è in gioco l’egemonia globale americana nella attuale Guerra Grande, la crisi di coscienza della superpotenza americana, che investe la stessa legittimità della sua leadership mondiale, si svela in tutta la sua drammatica evidenza.

L’identità americana può essere rappresentata in una duplice configurazione: come repubblica e come impero. Due dimensioni apparentemente contrapposte, ma destinate ad integrarsi reciprocamente. La repubblica è l’espressione politica dei valori che hanno presieduto alla indipendenza americana, quali la democrazia, le libertà individuali, la proprietà privata, il libero mercato. Gli USA hanno quindi rappresentato un modello politico ed economico liberaldemocratico suscettibile di esportazione in tutto il mondo. Infatti, sia la contrapposizione USA – URSS nella Guerra fredda, che l’attuale conflitto ucraino tra L’Occidente e la Russia, hanno assunto la connotazione ideologica di “democrazie contro autocrazie”. Le democrazie necessitano tuttavia del consenso interno nei confronti delle istituzioni, che negli USA è venuto meno. Anzi, le autocrazie delle potenze emergenti riscuotono un consenso popolare maggiore rispetto alle democrazie occidentali.

La democrazia americana è erosa dell’interno da conflittualità forse insanabili di natura politica, etica, razziale. Sembrano venuti meno i miti unificanti dell’eccezionalismo americano. Le diseguaglianze sociali e la deriva elitaria assunta dalla democrazia americana, hanno generato il distacco del popolo dalle istituzioni, da cui non si sente più rappresentato. Si accentua sempre più il degrado del senso civico degli americani specie nelle nuove generazioni, da attribuirsi anche al prevalere degli indirizzi tecnici negli studi, a discapito della cultura umanistica. La stessa fine della leva militare ha comportato la creazione di forze armate formate da professionisti della guerra, cioè di un esercito non più rappresentativo del popolo, ma ostaggio di una lobby militare autoreferente e del tutto distaccata dal sentire popolare. Infatti le guerre americane sono sempre più impopolari. Un impero decadente necessita incessantemente di guerre contro nemici assoluti, reali o virtuali, per sopravvivere. Ma le guerre non suscitano più nel popolo la riviviscenza di un patriottismo condiviso.

Gli USA, nonostante la loro genetica aspirazione al dominio globale e le tante guerre imperialiste, non si percepiscono come un impero. Infatti l’impero si configura come un ordinamento in cui la potenza dominante riconosce la pluralità diversificata delle nazioni, le quali a loro volta si riconoscono nell’impero sulla base di valori comuni unificanti. Il sussistere di un impero implica l’esistenza di due limiti, uno interno e l’altro esterno. Quello interno consiste nell’essere un organismo unitario, per sua stessa genesi sovraordinato alla multipolarità delle nazioni. Quello esterno implica il riconoscimento dell’ “altro da sé”, rappresentato dagli altri stati ed eventuali competitor.

Gli USA invece si configurano come una potenza assoluta globalmente egemone, che prescinde sia dal riconoscimento di altre potenze che dall’esigenza di credibilità internazionale e non concepisce limiti alla propria espansione, dato che ogni confine viene concepito come una “nuova frontiera” da abbattere. La leadership mondiale degli USA è una egemonia senza impero. La potenza americana è fondata su una dottrina di natura teologica, su di un universalismo globalista che aspira ad imporre il proprio modello politico ed economico a livello planetario, la cui finalità missionaria è quella di rendere il mondo “americano”. A tal riguardo così si esprime Lucio Caracciolo nel suo editoriale “L’impero non il mondo”, pubblicato sul numero 3/2024 di “Limes”: “L’impero globale è totalitario o non è. L’America ha contraddetto i propri princìpi quando, nel passaggio di millennio si è eletta a principe del pianeta. Scopre forse tardi, con raccapriccio, di stare rovinando sé stessa abbagliata da uno scopo insieme irraggiungibile e nefando, incompatibile con la storia che si è raccontata fin dalle origini. L’America non è il mondo e il mondo non può diventare americano” … “C’è una ragione profonda per cui l’America non vuole dichiararsi impero nel senso classico del termine: la sua anima è religiosa, non geopolitica. Assoluta, non relativa. Sovraordinata. Ergo: mentre gli altri si contendono i territori, noi li dominiamo dall’alto (e con le basi). Perché noi siamo l’America”.

Pertanto, oggi la potenza americana è in crisi a causa della sua sovraesposizione nel mondo, data l’impossibilità di far fronte ai tanti conflitti sorti nella Guerra Grande, scaturiti dal disconoscimento da parte delle potenze dei BRICS del primato universale degli USA. Si rileva spesso una assenza di strategia nell’unilateralismo globale americano, che ha esercitato il proprio dominio mondiale facendo leva unicamente sulla strapotenza delle armi e dell’economia. La superpotenza americana non necessita di per sé di strategie geopolitiche, in quanto non concepisce altro ordine internazionale che il proprio, esteso su scala globale. Né peraltro, dopo la fine della Guerra fredda ha mai accettato un sistema internazionale di equilibrio tra le potenze. Gli USA hanno semmai provocato conflitti bellici e intrapreso guerre economiche al fine di stroncare sul nascere l’emergere di qualsiasi potenza concorrente. Ma il fallimento di tali iniziative è ormai evidente, (vedi le sconfitte americane in Medio Oriente e l’esito delle sanzioni alla Russia). Le alleanze americane (vedi la Nato), implicano la totale subalternità degli alleati agli USA. Gli alleati europei peraltro, hanno delegato la propria sicurezza gli USA, con l’effetto di rendersi, oltre che politicamente dipendenti, anche del tutto incapaci di supportare gli americani nella difesa dell’Occidente, nel contesto del disimpegno USA in Europa.

Con il fallimento del “nuovo ordine mondiale” unilaterale e il progressivo tramonto dell’era della globalizzazione, sono riemerse in America correnti politiche e culturali isolazioniste, che teorizzano un ridimensionamento strategico del ruolo degli USA nel mondo. Tale prospettiva si rivela impossibile. Se l’egemonia americana non può assurgere a governance del mondo, la superpotenza non può nemmeno tramutarsi in nazione.

Nei secoli scorsi l’isolamento geografico del continente americano poteva garantirne la sicurezza dalle invasioni terrestri e favorire quindi politiche isolazioniste. Ormai, con lo sviluppo del progresso tecnologico e quindi delle interazioni economico – finanziarie  sorte nell’era della globalizzazione, l’interconnessione tra gli USA e il mondo, compreso il loro coinvolgimento geopolitico e militare in tutto il pianeta, è divenuta irreversibile. L’unilateralismo americano si è tramutato in egemonia mondiale con la globalizzazione economica, che ha imposto al mondo un unico sistema neoliberista ed è infatti solo in virtù del primato del dollaro e dell’economia finanziaria che può sussistere la leadership americana nel mondo.

Ma, paradossalmente, è proprio sul suo sistema egemonico unilaterale che grava la responsabilità di aver generato i suoi stessi nemici. Cina e Russia, a cui fu assegnato il ruolo di partner comprimari del nuovo ordine globale a governance americana, attualmente, affermano il loro status geopolitico di potenze emergenti, mediante la penetrazione economica, il finanziamento delle infrastrutture, le forniture militari in Asia, Africa e nella stessa America Latina.

La difesa e la sicurezza dell’America si identifica con la preservazione della propria egemonia. La dimensione nazionale e il ruolo di potenza mondiale sono complementari ed inscindibili, costituiscono la sintesi dell’identità americana, aspetti diversi ma convergenti, dell’idea che l’America ha di se stessa, plasticamente rappresentata dal culto dell’eccezionalismo americano.

Il venir meno della coscienza del proprio primato nel popolo americano, coincide con il declino dell’egemonia USA nel mondo. Nazione e impero statunitensi, così come parallelamente si sono affermati, altrettanto simultaneamente decadono: è in atto dunque una crisi sistemica che potrebbe preludere alla dissoluzione della potenza americana?

Deglobalizzazione e dedollarizzazione

La globalizzazione costituisce la versione economica dell’egemonia statunitense. Il primato geopolitico è infatti contestuale all’impianto su scala planetaria del un sistema neoliberista dominato dall’economia finanziaria. E pertanto, il processo di deglobalizzazione dell’economia mondiale in atto, si riflette specularmente nel declino geopolitico americano.

L’instaurazione del sistema neoliberista americanocentrico ha comportato l’avvio di un processo di esternalizzazione e delocalizzazione della produzione industriale messo in atto dagli USA, estesosi poi in tutto l’Occidente. I bassi salari e l’assenza di tutele legali e sanitarie della manodopera asiatica, sono i fattori che hanno indotto le grandi imprese occidentali a delocalizzare la produzione. Strategie economiche cui fanno riscontro le scelte politiche sistemiche messe in atto da una classe dominante già affermatasi in epoca reaganiana: un modello economico finalizzato a privilegiare il profitto e l’interesse degli azionisti a discapito dei lavoratori e degli equilibri sociali.

L’avvento del sistema neoliberista ha determinato la progressiva deindustrializzazione dell’Occidente e con essa, il declassamento del ceto medio proletarizzato, la flessibilità e la precarietà del lavoro, la compressione salariale, oltre al venir meno del welfare e delle tutele sindacali. Gli USA hanno generato essi stessi, con la delocalizzazione industriale i propri competitor economici e geopolitici del gruppo dei BRICS e si sono resi dipendenti dalle loro produzioni. La crisi della globalizzazione potrebbe essere interpretata nell’ottica di una “nemesi storica” in cui sono gli USA in primis a soccombere nel contesto di un sistema da loro stessi imposto: hanno perduto la loro leadership industriale, non dispongono di risorse adeguate a sostenere la concorrenza cinese nell’innovazione, non sono nemmeno in grado di competere nella produzione degli armamenti. La condizione attuale dell’America è riassunta nell’articolo di Fabrizio Maronta, da titolo “Pagare è comandare”, pubblicato sul numero di “Limes” sopra citato: “Vista da fuori questa America appare militarmente sovraesposta, con una classe media in affanno cui si chiede di credere – obbedire – consumare senza darle i mezzi adeguati, un settore finanziario ipertrofico e autoreferenziale, una politica incapace di compromesso. E’ un’America che non crede più nella sua capacità di provvedere a sé stessa – figuriamoci al resto del mondo – che mette in dubbio i fondamenti istituzionali del proprio modello e che teorizza la negazione del proprio passato (woke) dopo aver tentato di metabolizzare gli aspetti più dolorosi. Questa America è ancora un porto sicuro? E’ un paese rifugio?”

Al declino della classe media ha fatto riscontro il tramonto dei miti dell’individualismo dell’ “american way of live”, del “sogno americano” e del “self made man”, che avevano contribuito in misura rilevante all’affermazione del modello americano, quale paradigma universale del progresso illimitato, del benessere economico, dell’emancipazione sociale. Con la fine della classe media è venuta meno la mobilità sociale, cui è subentrata, con la flessibilità del lavoro, la mobilità geografica dei lavoratori nomadi precari. La crisi americana si identifica con quella di un sistema economico che ha generato anche il deterioramento dei valori etici, la disgregazione delle comunità locali, la fine dei corpi intermedi, la crisi dell’istituzione familiare. Le accentuate diseguaglianze hanno provocato una profonda sfiducia delle masse verso le istituzioni, divenute appannaggio di oligarchie finanziarie.

Il predominio dell’economia finanziaria ha generato bolle speculative, crisi ricorrenti dell’economia reale, crescita esponenziale del debito americano che attualmente ammonta a 34.400 miliardi ed è pari al 129% del Pil. Ma questa ipertrofia del debito è stata causata dalla politica economica scaturita dall’impianto del sistema neoliberista. Il decremento della pressione fiscale sugli alti redditi, la crescita delle spese per gli armamenti, le minori entrate fiscali dovute all’erosione dei redditi delle classe media declassata, hanno prodotto l’espansione del debito per far fronte alle esigenze della finanza pubblica. Ma il mega – debito americano è sempre stato sostenibile grazie alle dimensioni dell’economia statunitense e soprattutto in virtù del primato del dollaro che, quale valuta di riserva mondiale, garantisce sufficienti flussi di risorse per alimentare i mercati finanziari americani.

Il regime di signoraggio globale imposto dal dollaro sussiste compatibilmente con il primato americano. E la leadership geopolitica degli USA ha il suo riscontro nell’egemonia del dollaro. Gli USA infatti hanno affermato il loro dominio economico mediante l’esportazione delle proprie crisi, con manovre sulle fluttuazioni dei cambi e dei tassi, attraverso il governo del FMI, della Banca mondiale, delle agenzie di rating, che hanno spesso provocato il default degli stati con la trappola del debito. Aggiungasi poi il frequente ricorso a regimi sanzionatori messi in atto nei confronti degli “stati canaglia” e recentemente verso la Russia, il cui unico effetto è consistito nella destrutturazione delle economie dei paesi europei alleati.

Le sanzioni, così come le manovre monetarie incentrate sul dollaro, hanno profondamente inciso sulla credibilità della valuta statunitense a livello mondiale. Si sono intensificati pertanto gli scambi internazionali fuori dall’area del dollaro. Le spregiudicate manovre monetarie americane e le politiche sanzionatorie costituiscono una minaccia costante per le potenze emergenti, che vogliono emanciparsi dall’imperialismo economico statunitense. Il processo di dedollarizzazione dell’economia mondiale è già iniziato e nuovi ordini economici internazionali si stanno affermando. E’ in gioco l’egemonia economica degli USA, il cui primato coincide con quello del dollaro.

Gli USA mediante i flussi finanziari acquisiscono risorse necessarie per far fronte alla sostenibilità del debito e per compensare i disavanzi della bilancia commerciale. Ma col progressivo venir meno del ruolo del dollaro come valuta di riserva, quale avvenire si prospetta per gli USA, se non quello di un drastico ridimensionamento della loro potenza nel mondo? Deglobalizzazione e dedollarizzazione sono processi paralleli e coerenti, due aspetti inscindibili del declino americano, che si delinea graduale, ma progressivo e dagli esiti ancora imprevedibili. L’unilateralismo è in fase decadente, ma sarà possibile inventare una nuova America?

Il capitalismo woke e la nuova lotta di classe mondiale

Gli USA sono al loro interno dilaniati da violente contrapposizioni politiche. Vengono contestati i valori fondativi dell’America e quindi la sua stessa identità storica e culturale. Particolare rilievo, in tale contesto di crisi sistemica, ha assunto l’emergere dell’ideologia woke.

Woke (che significa stare sveglio, essere consapevole), è un movimento che ha la sua origine nei conflitti razziali del secolo scorso ed è sorto in difesa delle minoranze oppresse e marginalizzate. Ma, con l’influsso del neostrutturalismo francese, si è tramutato in una ideologia che si propone di reinterpretare la storia (coinvolgendo anche la cultura europea), nell’ottica di una perenne lotta per l’egemonia, con relativa  discriminazione e oppressione delle minoranze, quali i neri, i latini, gli omosessuali, le donne.

La storia e i valori a fondamento delle istituzioni politiche, vengono considerati come costruzioni ideologiche atte a camuffare la supremazia della razza bianca. Tuttavia, dalle rivendicazioni dei diritti delle minoranze dei movimenti woke, emerge un sostanziale razzismo. Infatti, secondo le premesse del wokismo, sono la razza o il genere a determinare il modo di essere e di pensare degli individui. Il wokismo, pur qualificandosi come un movimento di sinistra, nell’interpretare la storia come un susseguirsi di oppressioni e sfruttamento delle minoranze, si rivela un assolutismo ideologico che non concepisce alcuna trasformazione della società che comporti l’evoluzione morale e sociale delle masse. Quindi nega i fondamenti stessi dell’ideologia del progresso.

Il globalismo americano, in tutte le sue manifestazioni, è volontà di potenza, intesa come volontà di ricreare il mondo a propria immagine e somiglianza. Essa è connaturata all’eccezionalismo americano, la cui finalità missionaria è quella di creare un mondo “americano”. Ma la concezione di una egemonia illimitata americana, è l’espressione di una volontà di potenza destinata, per sua natura, a riprodurne tante altre uguali e contrarie al suo interno, tra le quali possiamo annoverare il wokismo. L’esito inevitabile del conflitto tra le tante volontà di potenza settarie tra loro inconciliabili è il nichilismo, la decomposizione interna dell’Occidente. Il wokismo può essere considerato un movimento sovversivo in quanto nega i valori dell’eccezionalismo USA, ma è comunque un prodotto della cultura liberal americana e ne esprime compiutamente i suoi esiti nichilisti. La sua matrice individualista è evidente: se l’appartenenza al gruppo trae la sua esclusiva origine dal genere o dall’etnia di riferimento, da elementi cioè connaturati e genetici dell’individuo, il gruppo non rappresenta altro che una proiezione autoreferente dell’individuo stesso.

Occorre inoltre rilevare che i conflitti sorti in America in nome della libertà hanno sempre comportato la criminalizzazione e la marginalizzazione della parte avversa. Così come nella guerra civile la vittoria dei nordisti anti – schiavisti ha determinato la distruzione dell’identità culturale del Sud, la contestazione dei movimenti libertari del ’68 ha condotto al monopolio dell’ideologia liberal nella cultura americana.

Il wokismo non è un movimento che rivendica l’emancipazione delle minoranze con la finalità della loro integrazione nelle istituzioni. Esso propugna un riconoscimento autoreferente dei gruppi identitari, negando alla radice la natura sociale e comunitaria dell’uomo. Il wokismo quindi non può che condurre alla decostruzione dello stato, oltre che della società, con la loro scomposizione in sette identitarie autogestite. Sulla base di questa struttura tribale della società, si può solo instaurare una dittatura delle minoranze, con la relativa marginalizzazione delle maggioranze: il wokismo crea i presupposti di una potenziale guerra civile.

E’ in atto nella società americana una aspra conflittualità sui valori dell’eccezionalismo americano, che la destra conservatrice vuole preservare dalla minaccia dei movimenti woke che ne auspicano la dissoluzione. Due posizioni contrapposte, ma dialetticamente complementari. L’ideologia woke è un fenomeno derivato, in quanto trae la sua ragion d’essere dalla volontà di decostruzione dei valori dell’Occidente. Per quanto concerne i conservatori invece, qualora venisse meno la loro immagine mediatica di difensori della patria dai movimenti woke, emergerebbe la loro reale identità razzista, suprematista, imperialista.

Il wokismo rivendica i diritti individuali delle minoranze, ma non i diritti sociali delle maggioranze discriminate dalle diseguaglianze economiche e sociali generate dal sistema neoliberista. Secondo Jean – Claude Michéa, l’ideologia dei diritti umani “rende concepibile una denuncia del razzismo, del sessismo o dell’omofobia (e di questo dovremmo essere contenti). Ma mai per estorsione di plusvalore”. Il wokismo si rivela quindi una ideologia integrata nel sistema capitalista. Infatti, i colossi del web e dell’e-commerce sostengono mediaticamente i movimenti woke, gender, LGBTQ. In realtà, attraverso il dominio del mondo mediatico, le elite economico – finanziarie espandono il loro potere nella società civile e rapidamente provocano radicali mutamenti nella coscienza collettiva, di natura etica, politica, sociale, prevaricando le leggi e le istituzioni degli stati. Afferma a tal riguardo Carl Rhodes nel libro “Capitalismo woke”, Fazi editore 2023: “Il 2020 [crisi COVID 19 N.d.R.] ha dimostrato che il capitalismo woke è una tendenza pericolosa, che pone una minaccia chiara e concreta tanto all’ideale quanto all’esercizio della democrazia. Adesso che il potere e l’influenza delle aziende penetrano sempre più profondamente nelle nostre vite, dobbiamo guardare in bocca a caval donato e domandarci quali siano realmente gli effetti prodotti dalle imprese e dai miliardari che ‘pretendono di potere, volere e dovere dirigere la vita morale e politica dei cittadini. Per quanto difficile possa essere rifiutare questi doni, occorre interrogarsi su quale sia la contropartita che ci viene chiesta. Se la risposta è che la moralità aziendale ci impone un patto faustiano, in cui barattiamo il diritto democratico all’autogoverno per i doni che i ricchi decidono di elargirci, allora è giunto il momento di opporci al capitalismo woke”.

Il soft power americano ha avuto la funzione di esportare globalmente il modello economico, politico e culturale americano. L’americanismo si è radicato in tutto il mondo e pertanto, la conflittualità in atto negli USA, si estende trasversalmente nella geopolitica mondiale. La crisi dell’egemonia americana ha fatto emergere le contraddizioni connaturate al sistema neoliberista. La conflittualità geopolitica della Guerra Grande tra l’Occidente americano e le potenze emergenti dei BRICS, verso cui convergono anche i paesi del Sud globale, si configura come una contrapposizione tra capitalismo cosmopolita occidentale e gli stati – civiltà dalla cultura identitaria. Tale contrapposizione si riproduce all’interno degli stati, tra le classi borghesi laiche, neoliberali, americaniste e i popoli, che rivendicano le loro culture identitarie e la giustizia sociale. Una nuova lotta di classe sta emergendo nel mondo, una conflittualità in cui si è realizzata una perfetta sintesi tra le rivendicazioni economico – sociali e quelle identitarie. Trattasi di conflittualità insanabili rivelatrici della crisi irreversibile in cui si dibatte il sistema capitalista globale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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