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Al-Aqsa Flood: vittoria strategica della Resistenza

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Obiettivi e finalità dell’attacco non sono stati militari ma politici e strategici: gli effetti immediati sono stati la distruzione della deterrenza israeliana e il suo isolamento. Al-Aqsa Flood ha alterato la percezione della forza fra i vari attori dell’area, riproposto la questione palestinese, ha sensibilmente modificato gli equilibri geopolitici e le agende diplomatiche in corso. La Guerra di Gaza è da considerarsi la conferma della fine dell’unipolarismo egemonico americano e dell’avvento della stagione multipolare.  

Premessa

Una vittoria è strategica quando consegue gli obiettivi di fondo per cui si agisce, mutando in modo determinante il quadro complessivo e volgendolo a favore dei propri interessi; in altri termini, raggiunge risultati politici che sono i fini ultimi – reali – di un conflitto. Per tale ragione, quando una lucida strategia esiste, non è fatto quantitativo ma qualitativo, non si misura col computo delle perdite ma dall’ottenimento degli scopi previsti. È la ragione per cui in Vietnam gli americani hanno perso rovinosamente malgrado abbiano inflitto danni di gran lunga superiori ai propri, come i francesi sono stati cacciati dall’Algeria o gli stessi israeliani dal Libano nel 2000. Alla luce di queste considerazioni, la Guerra a Gaza costituisce una vittoria strategica della Resistenza Islamica; quanto grande lo definiranno le fasi successive di un conflitto che è ancora in corso e tutt’altro che concluso.

Altra notazione è che lo scoppio della guerra in Palestina ha la medesima logica di fondo del conflitto ucraino: è il rifiuto del sistema unipolare, di un mondo ordinato secondo regole e interessi di un Egemone. Dico di più: in Medio Oriente è in corso un movimento rivoluzionario diretto non solamente contro Israele, ma teso a scardinare il sistema di potere instaurato molti decenni fa dagli Stati Uniti. Come la pretesa della NATO (leggasi: Washington) di espandersi indefinitamente a est ha necessitato la Russia a reagire, così la soffocante occupazione della Palestina ha indotto la Resistenza a rivoltarsi contro il regime israeliano, che del preteso dominio USA sull’area è pilastro irrinunciabile.

Questa seconda area di crisi ha certo radici antiche, ma allo stato è anch’essa inscritta al cozzo fra l’unipolarismo egemonico americano, in crisi manifesta, e il multipolarismo che sta emergendo e si sta affermando in un Sud Globale – sette parti su otto dell’umanità – sempre più allergico a omologarsi al rules-basedorder statunitense. Per tale motivo non rimarrà isolata né limitata, con ogni evidenza a essa (e alla crisi ucraina prima) se ne affiancheranno altre a opporsi a un egemonismo sempre più contestato, rigettato dai popoli del mondo necessitati a lottare per affermare propria autonoma sovranità e autonomia.

 I diversi piani in cui inquadrare l’Operazione

Diciamo subito che l’Operazione Al-Aqsa Flood non rappresenta un mutamento delle dinamiche che erano già in corso ma, piuttosto, un drastico cambio di registro; con essa non sono variati presupposti e termini della questione palestinese, né tantomeno la strategia della Resistenza – a occhio attento, procedeva da anni in questa direzione – a mutare sono stati livello e dimensione degli eventi, tali da imporsi all’attenzione anche di quegli attori che ritenevano (illudendosi) ormai archiviato il nodo della Palestina. Per primo Israele, che da molti decenni ha rimosso il problema ritenendolo gestibile con la repressione. La realtà ha mostrato quanto fosse errato.

Per comprendere cause, modalità e conseguenze del conflitto in atto, bisogna prima inquadrarlo su più piani: globale, regionale e locale; la convergenza delle opportunità maturate fra di essi ha determinato l’inizio di un’operazione preparata a lungo che, per sue caratteristiche e implicazioni, ha già inciso sui tre livelli e, con ogni probabilità, inciderà ancora.

Punto di forza di Israele è stato l’indiscusso e illimitato appoggio politico e militare americano. Spiegare i perché di questo rapporto del tutto “speciale” con l’Egemone sarebbe lungo: non è limitato a puro legame strategico o semplice convenienza dell’establishment USA, è assai di più malgrado negli ultimi anni il governo israeliano sia stato spesso considerato da Washington alleato “problematico”, più fonte di sgradite distrazioni che appoggio. In altri scritti ho dedicato molte pagine all’argomento: il vincolo esiste a prescindere di screzi che incidono solo in superfice sul rapporto; la sua esistenza ha “coperto” e assicurato impunità a Israele, con ciò aumentando nei soggetti internazionali, regionali e locali la percezione della sua forza.

Ma oggi gli USA sono indeboliti, distratti da troppi fronti che si aprono contestando la loro pretesa di primato. L’egemonia è cosa immateriale, funziona fino a che riconosciuta tale dagli altri, in caso contrario diviene fardello sempre più pesante perché costringe un egemone già in difficoltà a continui confronti che lo sfiniscono, svelandone l’impotenza dinanzi al mondo (e così suscitando sfide crescenti), impedendogli di concentrarsi sull’essenziale e necessitandolo a scelte dettate dagli eventi non da ponderata strategia. A ragione di ciò, per Washington l’impegno ucraino – già spinto assai oltre al voluto – sarà la prima vittima della guerra a Gaza che ora assume il centro della scena, lasciando ancora sullo sfondo, sfumato dalle nuove fiamme, l’Indo-Pacifico, fulcro irrinunciabile su cui le continue contingenze vietano di concentrarsi.

Tale è la condizione degli Stati Uniti che hanno visto aprirsi un’ennesima crisi, con assai seria minaccia di deflagrare in conflitto regionale, cui non hanno risorse né universalmente riconosciuta autorità da destinare, mentre già annaspano incapaci di “ordinare” il mondo di cui si pretenderebbero Numeri Primi. Sarebbero necessitati a contenerla, in alcun modo a lasciarsi invischiare in una nuova guerra, anche a costo di contraddire Israele, ma per riflesso di postura unipolare, egemonica, si sono schierati accanto a esso.

Nel viaggio del 18 ottobre, oltre a tentare di frenare l’alleato (quantomeno a indurlo a pensiero strategico, per lui estraneo), Biden ha assicurato garanzie da un attacco di Hezbollah dal Libano mercé le portaerei Gerald Ford e Dwight Eisenhower ridislocate in fretta nel Mediterraneo Orientale. Minaccia d’intervento diretto ad altissimo rischio per le conseguenze sul personale, strutture e interessi americani in Siria, Iraq e nel Mar Rosso via Yemen. Coltivando anacronistica illusione che possa essere sufficiente minaccia, al peggio un’ondata di raid aerei e missilistici; insomma, equivalente delle cannoniere ottocentesche. Con ciò rifiutando di leggere tempi e situazione.

E con ciò prefigurando preludio di liquidazione delle relazioni USA con i paesi islamici, come dimostrato dalla già avvenuta cancellazione del vertice di Amman coi leader arabi dopo la strage dell’ospedale a Gaza, con l’aggravio del veto che Washington ha posto all’ONU a un cessate-il-fuoco che permettesse la distribuzione di aiuti umanitari nella Striscia. Copertura offerta da chi non ha più risorse né prestigio per permetterselo, nel momento peggiore, con le piazze islamiche del mondo che ribollono e le loro leadership necessitate a seguirle; per convinzione o convenienza poco importa. In tal modo riducendo ancora quanto resta dell’influenza USA nella regione e nel Sud Globale, e per conseguenza fortemente indebolendo Israele.

Al contrario, sullo scenario mondiale i suoi rivali numero 1 e 2 – Cina e Russia– volgono l’occasione a frutto per le proprie agende e per inserirsi nelle dinamiche della crisi, limitando ancora gli spazi per gli americani e portando avanti gli interessi propri, non coincidenti con quelli israeliani, Doppio danno per gli uni e per gli altri.

Sul piano regionale, al di là della surreale narrazione occidentale, le dinamiche dell’area – in esponenziale evoluzione – mostrano l’affermazione dell’Asse della Resistenza, al netto dei reiterati – quanto falliti – tentativi di rallentare la sua progressione. Risalta che la guerra a Gaza pone pietra tombale sul processo di normalizzazione avviato fra Arabia Saudita e Israele, fortissimamente voluto da Washington e Tel Aviv, disponibili a trattare anche il continuo rilancio di condizioni – fino a prima ritenute inaccettabili – poste da Riyadh pur di giungere a un’intesa. E mette quelle già raggiunte con altri stati in obbligato stand by, avviando a morte cerebrale le relazioni con i paesi islamici (cinque ambasciate israeliane costrette a chiusura, una ventina in procinto di farlo o in drastico ridimensionamento).

Dinanzi ad Al-Aqsa Flood e le sue conseguenze, anche attori di peso come sauditi e turchi sono costretti a posizione critica verso Israele e, dall’attivismo precedente, relegati dietro le quinte dall’iniziativa dell’Asse della Resistenza. Ankara, in particolare, vede crollare le elaborate strategie costruite di recente per contenere l’Iran nel Caucaso, in Siria e Iraq, e assicurarsi il controllo del Mediterraneo Orientale (e del gas che vi è sotto) in condominio con Israele, oggi avviato a paria del mondo islamico.

Sul piano locale, la crisi è deflagrata nel momento di massima conflittualità interna della società israeliana. Come già detto e scritto in diverse occasioni, essa è da tempo lacerata fra blocchi sociali contrapposti irriducibilmente avversi, con visioni del mondo inconciliabili, le “tribù” di cui parlava l’ex presidente Reuven Rivlin. Per queste incomponibili fratture, oggi establishment e governo sono profondamente avversi, non si comprendono, meno che mai si fidano. In questa reciproca sfiducia, incomunicabilità di fatto, e nella ubris in cui si sono cullati gli apparati di Israele, risiedono molte delle ragioni del disastro cui sono andati incontro e di oggi possibili, futuri, errori ancor più grandi. La Resistenza Palestinese, per converso, non è mai stata più compatta e forte, si riconosce tutta nella Resistenza Islamica ed è unita nell’Asse della Resistenza. E questo è il punto.

 Fattori essenziali e dinamiche degli eventi

Per comprendere portata e dinamiche degli eventi in corso necessita evidenziare fattori essenziali oscurati nella narrazione mainstream: è del tutto fuorviante affermare che Hamas sia l’autore di Al-Aqsa Flood, essa è stata operazione dell’intera Resistenza Islamica Palestinese, incardinata nell’Asse della Resistenza; le Brigate dei dodici gruppi che la compongono a Gaza hanno partecipato tutte in ragione di dimensioni e capacità, coordinate dalla Sala Operativa Congiunta presieduta da Hezbollah e dalla Forza Quds, in funzione di una strategia complessiva di cui la Striscia è solo uno dei teatri operativi.

Obiettivi e finalità dell’attacco e delle operazioni conseguenti non sono stati militari ma, piuttosto, politici e strategici: gli effetti immediati conseguiti sono la distruzione della deterrenza israeliana e il suo isolamento. Ricordiamo ancora che la deterrenza non è semplice espressione della forza, ma della percezione di essa proiettata sui soggetti cui è indirizzata (che, dopo lo shock di Al-Aqsa Flood, si è frantumata); per Israele è imperativo esistenziale restaurarla distruggendo chi l’ha umiliato così platealmente. Per questo ha indicato da subito come suo obiettivo Hamas, evitando di alzare l’asticella a bersagli del tutto fuori della sua portata come Hezbollah (meno che mai l’Iran), tentando di restringere un campo che nella realtà è assai più vasto. Ma anche così facendo esattamente quello che la Resistenza si aspettava, accingendosi a ripetere l’errore commesso nel 2006, quando tentò ancora di invadere il Libano dopo l’Operazione al-Waad al-Sadeq lanciata da Hezbollah, pagando caro prezzo.

Nel giorno in cui scriviamo Israele ha tre opzioni teoriche: cessate-il-fuoco, da escludere, equivale ad ammissione d’impotenza, peggio che mai dopo aver dichiarato urbi et orbi che sradicare Hamas è suo irrinunciabile obiettivo; sarebbe archiviazione definitiva dell’antico postulato di Moshe Dayan, secondo il quale Israele doveva esser visto come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato. Impraticabile la prosecuzione sine die dei bombardamenti: si rivela manifestamente inutile a distruggere Hamas, in quanto “vendetta collettiva” (così definita dal governo) diviene ogni giorno più dannosa perché compatta il fronte dei paesi critici di Israele e indebolisce quello a suo favore, con ciò aggiungendo danno a danno e protraendo la sfida che la Resistenza gli getta comunque in faccia dinanzi al mondo.

Resta l’operazione di terra: suicidio come hanno sostenuto gli USA che hanno tentato di trattenere l’alleato (fino a quando?  La visita di Joe Biden in Israele, il 18 ottobre, mirava anche a questo). Lo è dal punto di vista militare e ancor più politico, basta ricordare ancora il 2006 e la bruciante sconfitta subita da Tsahal, da allora mai più tornato in Libano. Pensare di sradicare Hamas è slogan privo di senso; esso è frutto di essenza politica, non può essere ucciso, meno che mai quando è parte d’assai più ampio consesso: l’Asse della Resistenza. Al contrario, come esperienza insegna largamente, quanto più attaccato tanto più amplia i consensi.

E poi, quand’anche Israele riuscisse a entrare a Gaza, che farebbe? Come gestire oltre due milioni di palestinesi inferociti da massacri e abusi d’ogni tipo? Tornare a occupare la Striscia facendosene carico? Improponibile. Deportarli tutti? Irrealistico, come lo è ipotizzare d’allontanare Hamas da Gaza, ipotesi che da molti si comincia a suggerire in una riedizione di quanto fatto nel 1982 con l’OLP a Beirut. Proporlo è dimostrare mancanza di comprensione di fatti e realtà: è del tutto imparagonabile il radicamento del Movimento Islamico nella Striscia con quello che aveva l’OLP in Libano. Con in più la sostanziale differenza fra le due organizzazioni e l’incardinamento di Hamas nell’Asse e nella sua strategia complessiva.

Strategia che manca del tutto a Israele, non ha alcun piano (d’altronde non ha mai avuto una strategia compiuta al di là dell’uso della forza o della propensione all’EretzYisrael, al Grande Israele), lo stesso Biden lo ha fatto presente a Netanyahu nel suo incontro; come affermato da un suo ex Consigliere alla Sicurezza Nazionale intende agire, poi decidere sul da farsi. Trionfo del pensiero a-strategico, nelle temperie attuali tendente – appunto – a suicidio. Perché impegnandosi in un’assai problematica battaglia nella Striscia non è solo con essa che si dovrebbe misurare.

I conseguenti massacri segnerebbero l’attraversamento della linea rossa posta dalla Resistenza, che avrebbe motivazione e modo di attaccare dal Libano con Hezbollah (evento considerato massima iattura dai vertici di Tsahal, al di là dei vaneggiamenti di quelli politici), dal Golan con le Hashd al-Shaabi irachene basate in Siria, mentre la Cisgiordania che già ribolle – impegnando numerose forze dell’Esercito israeliano – insorgerebbe ed esploderebbe la rabbia degli arabi israeliani all’interno delle città, come già avvenuto nel 2021: sarebbe l’Unione delle Arene. Israele lo sa e, mentre scriviamo, ha indugiato arrovellandosi in uno stallo che per lui è già sconfitta.

Non riteniamo attenda ancora per molto; con ogni probabilità all’inizio proverà a non attaccare a testa bassa (avrebbe solo da perdere come gli ripetono tutti), a ottenere risultati da vendere come la distruzione di Hamas. Facile a dirsi, molto, ma molto più complesso da realizzarsi in un territorio così antropizzato e fortificato. In Libano, nel 2006, cominciò così, con infiltrazioni di forze limitate nelle intenzioni dedicate a missioni specifiche; alla fine, otto brigate erano state risucchiate nella battaglia senza venir a capo di un nemico sulla carta infinitamente più debole, e costrette alla ritirata.

Come detto, l’obiettivo della Resistenza è stato ed è politico: far collassare dall’interno il regime israeliano; l’uso, il dosaggio o la credibile minaccia della forza – come finora fatto da Hezbollah – sono strumenti non necessitati a essere declinati fino allo scontro frontale da tutti gli appartenenti alla Resistenza, lo saranno fino al raggiungimento di quel fine che, verosimilmente, appare oggi realistico. E ciò perché, a differenza di Israele, per la Resistenza l’uso della forza non costituisce né sostituisce la politica, meno che mai è fine a se stessa, ma, come sostiene Clausewitz, è intesa come prosecuzione di essa con altri mezzi per il raggiungimento dei fini prefissi.

In ogni caso, il blocco di Netanyahu ha ricevuto colpo mortale da Al-Aqsa Flood, e le temperie del conflitto non hanno stretto una popolazione già divisa attorno al suo governo, tutt’altro. Secondo ampio sondaggio apparso sul quotidiano israeliano Maariv, Netanyahu e il suo governo sono stati ritenuti responsabili del disastro, la direzione della guerra del Primo Ministro bocciata ed esso stesso non considerato all’altezza di rimanere premier.

Conclusioni

In definitiva, Al-Aqsa Flood è stato capolavoro politico e strategico oltre che operativo: ha alterato la percezione della forza fra i vari attori dell’area; riproposto la questione palestinese quale aspetto dirimente per i paesi della regione, con ciò sottraendola dal voluto oblio cui era stata relegata; ha sensibilmente modificato gli equilibri geopolitici e le agende diplomatiche in corso, dando indiscussa iniziativa all’Asse della Resistenza nel suo complesso – che ha molte carte da giocare attraverso i suoi diversi attori, oltre che in Libano, in Siria, Iraq e soprattutto in Yemen, per la sua posizione di controllo sul Mar Rosso (missili e droni lanciati pochi giorni fa dalla Resistenza yemenita sono segnale di minaccia concreta) – e togliendola ad altri aspiranti egemoni locali oggi obbligati ad accodarsi (Arabia Saudita), mettere in stand by le proprie iniziative (Turchia) o scegliere fra suicidarsi o ridimensionarsi (Israele).

E non è finita, l’operazione della Resistenza a Gaza ha inciso anche sul piano globale: ribadiamo che gli USA, già sovraesposti, sono necessitati a limitare i danni provando a frenare Israele, quanto meno a gestirlo politicamente per scongiurare il deflagrare di una guerra regionale che, come già detto, nelle temperie attuali non sono in grado (e non hanno interesse) di gestire e che espellerebbe la loro residua influenza dal Medio Oriente. In ogni viatico per una drastica contrazione delle loro pretese egemoniche globali.

Come evolveranno le cose non è dato sapere, gli eventi sono in pieno svolgimento ma, piaccia o no, rileva notare che le loro dinamiche seguono linee e programmi tracciati dalla Resistenza Islamica ed è l’Asse che la ricomprende ad avere l’iniziativa. A conti fatti, tenendo l’occhio sulla gestazione, svolgimento e conseguenze, la Guerra di Gaza dell’ottobre 2023 è da considerarsi conferma della fine dell’unipolarismo egemonico e dell’avvento della stagione multipolare.

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