Un disegno spregiudicato del leader leghista alla base della decisione del ministro degli Affari Esteri di dimettersi da capo politico del M5S alla vigilia del cruciale voto regionale
Una breve nota sul recente passo indietro di Luigi Di Maio si impone. La decisione del ministro degli Affari Esteri di dimettersi da capo politico del Movimento 5 Stelle da un lato era attesa da molto tempo: secondo alcuni dall’esito disastroso del voto umbro dell’ottobre 2019, secondo altri, più severi, addirittura dal tracollo subito il precedente mese di maggio, in vigenza del governo giallo-verde, al voto europeo ove un comparabile risultato nazionale registrò in meno di quindici mesi il dimezzamento netto del peso elettorale pentastellato.
Dall’altro, ha colto di sorpresa molti elettori ed osservatori politici. Perfino il guru Grillo si è chiesto perché il suo ex pupillo non avesse atteso il giorno dopo il voto emiliano-romagnolo e calabrese – dove per i 5 Stelle si preannuncia un “bagno” di portata epocale – anticipando invece la scelta alla settimana precedente.
La risposta più ovvia circolata tra i media e nei social è stata quella, plausibile, della volontà di Di Maio di sfilarsi in anticipo rispetto alla chiusura delle urne del 26 gennaio per non “intestarsi” l’ennesima sconfitta in un responso popolare. Giustificazione formalmente corretta, ma sostanzialmente non esaustiva, almeno se si voglia cercare (e trovare) una chiave di cruda lettura politica che sappia rispondere agli inconfessabili “dessous de cartes” di una partita più consistente.
Non è da escludere che il passo indietro di Di Maio possa essere, in sostanza, una spregiudicata manovra concordata con – e proposta da – Matteo Salvini: una simbiosi, in sintesi, che permetterebbe all’ex leader pentastellato e ad una robusta pattuglia di 5 Stelle allergici al Pd di rispolverare la rimpianta alleanza giallo-verde del 2018-2019 in uno scenario istituzionale futuro ma non troppo. Quel che – a nostro avviso – risulterebbe essere più interessante e politicamente rilevante è, invece, la motivazione che avrebbe mosso la Lega.
Fin troppo note sono le differenze caratteriali miste a sana gelosia competitiva che da un paio d’anni animano i sentimenti salviniani nei confronti di Giorgia Meloni. Se un partito, la Lega, la scorsa estate accreditato del 35-36% mal tollerava la vicinanza di un alleato, Fratelli d’Italia, insistente su un medesimo bacino di consenso elettorale con percentuali del 5 o 6%, figuriamoci quali possano essere ora i margini di sopportazione con rapporti di forza nel frattempo passati da 1:6 a 1:3.
Non solo: la recente inclusione da parte del “Times” di Londra della Meloni tra le venti persone al mondo più influenti nel 2020, nonché l’invito, unica italiana ammessa, nel marzo 2019 all’appuntamento annuale dei Conservatori Usa a Washington non devono aver contribuito alla benevolenza di Salvini verso la sua “alleata”, la quale ha dimostrato con ogni evidenza di saper coltivare rapporti ed esibire una maggiore confidenza mediatica con ambienti “giusti”, quelli che invece impediscono a Salvini di essere accettato come interno al sistema-che-conta.
L’iconografia della cravatta si inquadrerebbe, insomma, nel tentativo da parte di Salvini di sostituire i suoi alleati, arruolando un remissivo e malleabile Di Maio ed abbandonando una esigente e battagliera Meloni al suo destino di establishment. O, almeno, di alleggerirne il peso specifico e quindi la forza contrattuale in vista di un prossimo (o remoto) governo di centro-destra. D’altra parte in politica, si sa, chi è distante è un avversario, chi è vicino è un nemico.