L’unico modo per porre fine al conflitto senza rinunciare allo stato ebraico, sarebbe quello di separare geograficamente i due popoli. Occorre decostruire il mito religioso della Terra promessa e quello securitario del quale si faceva forte il movimento sionista per indurre gli ebrei di tutto il mondo a trasferirsi in Palestina.
La proposta dei due popoli in due stati indipendenti entro la Palestina appare ormai fuori dalla realtà, sostenibile solo da chi vuole la continuazione del conflitto. Soprattutto dopo gli ultimi eventi, non è razionalmente possibile che israeliani e palestinesi coesistano pacificamente gli uni accanto agli altri: presi entrambi dalla psicopatia dell’assediato, continueranno a combattersi ferocemente finché resteranno a contatto, e nessuno dei due potrà eliminare l’altro, stante che gli israeliani sono appoggiati dagli Stati Uniti e da quasi tutto l’occidente, mentre i palestinesi sono appoggiati in generale dai popoli islamici, numerosi e assai prolifici. L’unico modo per far cessare il loro scontro è separarli geograficamente. Israele ci ha provato adesso, richiedendo all’Egitto di prendersi i palestinesi di Gaza, ma l’Egitto ha rifiutato; e in ogni caso, quand’anche accettasse, la lotta per la riconquista della loro terra, strappata col terrorismo e con le guerre dagli ebrei dal 1947 in poi, proseguirebbe, arricchita da nuove valenze epiche.
Non dimentichiamo infatti, come invece i mass media e i governi vogliono farci dimenticare, che lo stato ebraico ha un problema giuridico irrisolto, ossia il fatto che ha conquistato immediatamente il territorio su cui si trova, togliendolo ai suoi legittimi occupanti palestinesi, ma questi non hanno mai riconosciuto e legittimato la conquista con un trattato di resa. Perciò l’esistenza stessa dello stato ebraico in quel territorio non è propriamente legittima, mentre è legittima la lotta palestinese per scacciarlo. Ricordiamo anche che gli acquisti di terreni palestinesi da parte dei coloni ebraici all’inizio della conquista erano acquisti della proprietà privata, civilistica, non della sovranità territoriale.
E ricordiamo pure che l’ONU, con le sue risoluzioni, può riconoscere lo stato ebraico, ma non ha il potere di trasferire la sovranità politica o su un territorio da un popolo all’altro, ancor meno tra popoli che non erano nazioni membri dell’ONU. Questi ultimi, attaccando Israele per eliminarlo, stanno quindi esercitando il diritto di riconquista, o meglio di difesa del loro territorio, contro un soggetto politico che vuole esercitare il diritto di conquista. È vero che i palestinesi, o parte di essi, nel condurre questa legittima guerra difensiva compiono azioni illegittime perché terroristiche, ma è altrettanto vero che gli israeliani compiono anch’essi tali azioni terroristiche. E sono obbligati ad agire con la massima fermezza perché altrimenti verrebbero travolti dai musulmani ostili.
Dato che evidentemente nessuno dei due popoli è disposto a cedere né ha la forza per debellare l’avversario, il loro conflitto non può finire, quindi tutto ciò che altri paesi possono fare è cercare di contenere geograficamente quel conflitto in modo che non si espanda ad altre aree.
L’unico modo per porre fine al conflitto senza rinunciare allo stato ebraico, sarebbe, come già detto, separare geograficamente i due popoli. E, siccome il popolo palestinese ha una continuità etnica, religiosa, politica con i paesi arabi circonvicini, trasferire i palestinesi in un’altra regione del mondo, convenientemente distante, non è fattibile. Non resta pertanto che trasferire lo stato ebraico. All’atto pratico, si tratta di persuadere qualche paese latino-americano in grave difficoltà finanziaria a vendere la sovranità politica su un territorio di circa 50.000 chilometri quadrati, dotato di accesso al mare, acqua dolce, terreni coltivabili. I fondi potrebbero venire da Israele, da un pool di paesi arabi ricchi e di paesi occidentali.
Ma per poter procedere al trasferimento è prima necessario decostruire il mito su cui lo stato ebraico è stato costituito, decostruirlo nelle sue varie articolazioni, per demotivare e delegittimare chi si oppone al trasferimento.
La prima articolazione è ovviamente quella del mito religioso, della Terra promessa, e si può decostruirlo innanzitutto invocando, assieme a buona parte degli ebrei ortodossi, la prescrizione talmudica, secondo cui il popolo di Israele non deve ritornare nella Terra promessa se non dopo l’avvento del suo messia, e farlo prima, soprattutto costituendo uno Stato, è stata una bestemmia contro il loro Dio – bestemmia che Dio ha manifestamente castigato condannandoli a vivere sotto continua aggressione e minaccia da parte dei popoli circostanti, e attirandosi anche l’avversione dei popoli già amici. In conseguenza, accettare di trasferirsi altrove è un atto di obbedienza al Dio e di rinuncia ad offenderlo, un passo necessario per riconciliarsi con lui.
Il secondo mito fondativo da ricostruire è quello securitario, del quale si faceva forte il movimento sionista per indurre gli ebrei di tutto il mondo a trasferirsi in Palestina, nella Terra promessa, perché con la avrebbero potuto fondare un loro stato ed avere una vita sicura e protetta, liberandosi così dalle persecuzioni e discriminazioni che avevano sofferto per secoli nei vari paesi del mondo. A questo fine si potrà far conoscere non solo agli Ebrei israeliani ma a tutto il mondo la realtà storica, oggettiva: il movimento sionista crebbe e operò sotto la guida principalmente dei banchieri Rothschild per conquistare il controllo del sistema bancario e monetario degli Stati Uniti, quindi della politica statunitense, con mezzi discutibili che stanno venendo alla luce, e solo dopo il raggiungimento di tale obiettivo, cioè dopo il 1913 (contemporanea fondazione della Fed e della Anti-Defamation League), si rivolse verso la Palestina. Il primo stato ebraico è gli USA. La famosa dichiarazione del ministro degli esteri britannico Balfour del 1917, con cui si asseriva che il governo di sua maestà, che poi avrebbe assunto il mandato sulla regione comprendente la Palestina, riconosceva il diritto del popolo ebraico a una sede nazionale in quel paese, fu una sorta di acconto che Londra dovette pagare a una Washington ormai in mano ai sionisti per ottenere la sua entrata in guerra nel primo conflitto mondiale.
Successivamente, il movimento bancario sionista avrebbe potuto usare le sue grandi risorse economiche per comperare la sovranità territoriale su parte della Palestina negoziando con i palestinesi, consensualmente, pacificamente, ma preferì usare quei soldi per armare e sostenere le guerre di conquista dei coloni ebraici che aveva attirato laggiù con la promessa della sicurezza dopo tanti anni di persecuzioni. Ovviamente i banchieri sionisti sapevano che, così facendo, gettavano i presupposti per un conflitto interminabile etnico, politico e religioso: ma era ciò che volevano. Storicamente è ormai chiaro lo scopo di questa operazione e di questa scelta della comunità bancaria che animava il movimento sionista: essa voleva dotarsi di un avamposto militare in permanente stato di allerta bellico, e che svolgesse per suo conto la funzione di gendarme d’area in una zona cruciale in quanto contenente i principali giacimenti petroliferi del mondo, e la fondamentale importanza del petrolio, sia come combustibile che come materia prima per la produzione di plastiche e fertilizzanti, era divenuta evidente grazie alle vicende della seconda Guerra mondiale. Quindi questa comunità bancaria attirava i poveri ebrei sprovveduti da tutto il mondo a conquistare la Palestina, illudendoli che così avrebbero finalmente avuto la sicurezza e la pace, mentre li mandava in una guerra perenne nel suo interesse egoistico.
Insomma, la costituzione dello stato ebraico in Palestina è stata compiuta contro la religione e contro la sicurezza. Ed è stata una trappola in cui sono cascati gli ebrei meno avveduti. Nel loro conflitto, ebrei e palestinesi sono entrambi soggetti passivi, strumenti di disegni altrui.
Infine va osservato che anche la Shoah viene invocata a sproposito per giustificare la costituzione dello stato ebraico in Palestina, sia perché, come già detto, lo stato ebraico in Palestina non è affatto sicuro e protetto ma anzi in esso gli ebrei vivono perennemente sotto tiro, sia perché la Shoah può dare un credito alle sue vittime nei confronti della Germania, ma non glielo dà certo nei confronti dei Palestinesi, che quindi non sono e non erano tenuti a cedere la loro terra. Inoltre quel credito, per il quale la Germania ha già pagato un grosso risarcimento, non può essere eterno e trasmissibile di generazione in generazione: a distanza di 80 anni, vittime e carnefici sono tutti morti o quasi.
L’uomo dovrebbe guardarsi dal credere nei crediti morali eterni, perché questi possono essere usati per costituire una posizione di privilegio razzista, di legittimazione a fare agli altri ciò per cui si è divenuti i creditori. I crediti morali eterni favoriscono il ripetersi degli abusi.
Proprio in questi giorni notiamo come il credito morale eterno degli ebrei stia sbiadendo presso l’opinione pubblica mondiale e persino presso i mass media, perché l’uccisione sistematica di molti innocenti, di migliaia di bambini, corrode l’immagine di vittime: se fai certe cose, non sei più credibile come vittima.
La costruzione del mito dello stato ebraico che ha sempre ragione qualsiasi cosa faccia perché è legittimato dal credito olocaustico risulta essere in realtà un mito creato a copertura e beneficio del sionismo bancario anglo-americano, non già nell’interesse degli ebrei e particolarmente degli ebrei stabiliti su in Palestina, che esso invece condanna a vivere male, in uno stato di perenne pericolo e bersagliamento. Serve a legittimare non loro, ma il predominio nel mondo della finanza sionista e le sue operazioni, economiche e militari, per quanto devastanti siano ai danni dei vari popoli. La recente affermazione di Joe Biden, che se lo Stato di Israele non esistesse gli Stati Uniti dovrebbero inventarlo, conferma questa ricostruzione storica. Anche John Kennedy jr ha riconosciuto che, senza il gendarme israeliano in quell’area, i pozzi passerebbero sotto il controllo della Russia e dei suoi amici.
Ovviamente per ora una proposta di trasloco dello stato ebraico non sarà accettata né da Washington né da Gerusalemme, ma potrebbe esserlo in un vicino futuro per effetto di tre fattori: primo, la perdita del credito morale di Israele e la riprovazione dell’opinione pubblica mondiale, unite a una crescente lacerazione socio-politica interna; e ancora, la conseguente perdita della sua capacità di azione come gendarme d’aria, quindi della sua utilità per l’elite bancaria sionista anglo-americana, che anzi potrebbe trovarsi in crescente difficoltà a sostenere il partenariato con lo stato ebraico, sì che a un certo punto potrebbe ritenere conveniente il suo trasloco o semplicemente abbandonarlo alla sua sorte. Un tale rischio indurrebbe i leaders israeliani a optare per una nuova sede geografica, prima di fare la fine del topo.
Per favorire questa maturazione dei tempi, cioè per rendere lo stato israeliano non più idoneo a servire gli scopi per i quali è stato fondato, occorre raggiungere l’opinione pubblica con la conoscenza di quanto sopra, e soprattutto che lo stato ebraico è stato fondato attirando i coloni ebrei in una trappola, in un nuovo, grande Lager, per farli combattere incessantemente come guerrieri schiavi di interessi economici lontani, subendo e commettendo le peggiori atrocità, senza via d’uscita. Ci si può spingere fino a divulgare il dato di fatto che la gran parte dei sedicenti ebrei (soprattutto gli ashkenaziti, cioè quelli che comandano nell’area del dollaro) ebrei non sono, appartenendo a un ceppo europeo, i khazari, convertitosi arbitrariamente all’ebraismo nell’alto medioevo, per ragioni politiche; sicché per loro neanche vale il mito del ritorno alla terra degli avi.