Sui mega profitti bancari non incideranno le misure fiscali relative alla tassa sugli extraprofitti varata dal governo. Ma l’aumento dei tassi condurrà nel prossimo futuro alla recessione economica. E la recessione provocherà il moltiplicarsi delle insolvenze e conseguenti crisi del settore bancario. Dato l’elevato livello dei tassi, gli investimenti finanziari si rivelano più remunerativi e meno rischiosi rispetto a quelli nell’economia reale.
Il sistema bancario italiano registra utili record. Dalle trimestrali bancarie emergono utili per 16,5 miliardi, con un aumento dell’80% rispetto alle trimestrali precedenti (in cui gli utili ammontavano a 9,2 miliardi) e del 70% rispetto ai 25 miliardi del 2022. Le previsioni per fine 2023 evidenziano un trend di profitti ancora in aumento.
I 10 rialzi dei tassi deliberati dalla BCE hanno determinato i profitti record registrati dalle banche. I rialzi della Lagarde hanno prodotto 27,6 miliardi di maggiori ricavi per le banche, che peraltro registrano un incremento complessivo di fatturato per 50 miliardi. Ma il dato più sconcertante scaturisce dal fatto che i tassi sugli impieghi hanno generato un “net interest income” (margine di interesse netto – differenza cioè tra i proventi degli interessi sui prestiti e l’ammontare degli interessi corrisposti sui depositi della clientela), pari a 28,9 miliardi. Infatti, ad un tasso praticato dalle banche ad imprese non finanziarie del 5,35%, fa riscontro un tasso dello 0,86% sui depositi. Questa sperequazione è particolarmente accentuata in Italia. Sono dunque evidenti le perniciose conseguenze, sia dal punto di vista economico che da quello etico, dei provvedimenti antinflattivi della Lagarde: l’aumento dei tassi sui prestiti, con effetti recessivi sull’economia reale, non è stato bilanciato da un proporzionale incremento dei tassi sui depositi, da misure cioè di tutela del risparmio e di compensazione dell’erosione del potere d’acquisto dei redditi dei privati cittadini.
Occorre rilevare inoltre che su tali mega profitti non incideranno le misure fiscali relative alla tassa sugli extraprofitti già varata dal governo. Al decreto 104 del 2023 è stata apportata una rilevante modifica mediante un emendamento che prevede una opzione di scelta per le banche di non versare la tassa, a condizione che destinino una quota di utili pari a 2,5 volte l’importo dell’imposta ad incremento del loro patrimonio. L’esercizio di tale opzione ha comportato il trasferimento a patrimonio di 4,2 miliardi per i primi 5 istituti bancari italiani ed un mancato introito fiscale per lo Stato di 2 miliardi. Si è resa dunque evidente la pavidità del governo italiano rispetto alle pressioni esercitate dal settore finanziario riguardo alla tassazione straordinaria sugli extraprofitti. Ma l’atteggiamento remissivo del governo Meloni è tuttavia in perfetta continuità a quello dei governi precedenti. Si pensi infatti alla mancata tassazione straordinaria sugli extraprofitti conseguiti dal settore assicurativo durante la fase pandemica e al mega sconto concesso sul “contributo di solidarietà” alle imprese energetiche, che ha comportato 400 milioni di minori incassi per lo Stato rispetto ai 2,5 miliardi previsti. Questa forma di imposizione è stata del resto bocciata dalla BCE, in quanto, oltre a provocare effetti distorsivi sulla concorrenza, danneggerebbe la fiducia degli investitori e penalizzerebbe l’accesso al credito. Analoghe proposte di Tremonti furono bocciate dai giudici. Occorre concludere che il principio della redistribuzione dei redditi e della perequazione sociale sancito dalla costituzione è stato materialmente abrogato.
Si possono pertanto individuare le cause del progressivo deterioramento delle finanze degli Stati, afflitti da cronici deficit di bilancio e dalla incidenza sempre crescente del debito pubblico sul Pil. Aggiungasi poi che la carenza di entrate per gli Stati, è sempre più accentuata dalla elusione fiscale legalizzata sugli extraprofitti dei settori energetico e bancario, dalla delocalizzazione produttiva, dall’espatrio di grandi imprese verso i paradisi fiscali, dalla imposizione privilegiata nei confronti dei giganti dell’i-tech e dell’i-commerce. Tale situazione si ripercuote sui popoli in termini di progressiva proletarizzazione della classe lavoratrice, la cui condizione sociale risulta sempre più degradata a causa dell’erosione del potere d’acquisto delle retribuzioni dovuto all’inflazione, della compressione salariale, della eccessiva pressione fiscale.
Gli effetti della politica antinflattiva della Lagarde sono evidenti. I prestiti a imprese e famiglie sono diminuiti del 3,6% rispetto al 2022. Dati che riflettono un rallentamento della crescita e implicano di conseguenza un calo della domanda di prestiti. I depositi presso le banche sono scesi del 4,2% rispetto a un anno fa. Indice di rarefazione della liquidità. Si rileva inoltre che la raccolta dei titoli presso le banche registra un incremento di 230 miliardi e quella delle obbligazioni è cresciuta del 16,9%. Dato che il rendimento delle nuove obbligazioni è pari al 4,42% (con un incremento di 311 punti base rispetto al 2022), è prevedibile nei tempi brevi un rilevante dirottamento di risorse finanziarie verso i titoli obbligazionari a discapito degli investimenti nell’economia reale.
L’aumento dei tassi condurrà nel prossimo futuro alla recessione economica. E le conseguenze negative per l’economia reale non sono da imputarsi tanto al pur rilevante incremento percentuale dei tassi, quanto piuttosto alla durata ad oggi imprevedibile del periodo in cui resterà in vigore questo elevato livello dei tassi stessi. I ripetuti annunci della Lagarde relativamente agli aumenti dei tassi, non sono mai stati accompagnati da analisi di più ampio respiro circa l’andamento del ciclo economico del prossimo futuro. Ciò induce a ritenere che la BCE non disponga di una visione strategica circa le prospettive dell’economia europea. Il deficit di comunicazione della Lagarde, più volte evidenziatosi, incide negativamente sulla fiducia degli investitori, genera incertezza e favorisce la speculazione nei marcati.
Il boom di utili del settore bancario ha determinato la scarsa propensione delle banche alla concessione di prestiti a famiglie ed imprese. Infatti, dato l’elevato livello dei tassi, gli investimenti finanziari si rivelano più remunerativi e meno rischiosi rispetto a quelli nell’economia reale. Una prolungata fase di alti tassi di interesse comporta criteri maggiormente restrittivi circa il merito del credito, la cui erogazione implica elevata rischiosità. Un alto e prolungato livello dei tassi determina inoltre un inevitabile rallentamento dell’economia e cali della domanda che conducono alla recessione, con il moltiplicarsi delle insolvenze e conseguenti crisi del settore bancario.
Nonostante il rafforzamento delle componenti patrimoniali delle banche, occorre rilevare che nei bilanci delle banche stesse, figurano valori del tutto inattendibili relativamente a masse di titoli emessi negli anni del QE a interessi zero, il cui valore di mercato è oggi nullo. Le prolungate fasi della finanza facile con tassi a zero hanno provocato crisi di liquidità e fallimenti bancari negli USA nel momento in cui sono stati varati i rialzi dei tassi.
La politica antinflattiva della BCE può produrre solo nuove crisi. L’obiettivo dell’inflazione al 2% nella UE potrebbe rivelarsi irraggiungibile. Infatti l’attuale inflazione non dipende da eccesso di domanda e in ogni caso la terapia dell’aumento dei tassi si rivela inefficace. Pertanto, in caso di nuove crisi deflattive, sarà necessario emettere nuova liquidità e abbassare i tassi. Misure che vanificherebbero le attuali politiche restrittive della liquidità messe in atto dalla Lagarde. Questo sistema capitalista – finanziario può sussistere solo con incessanti emissioni di liquidità e tassi a zero: politiche che hanno prodotto periodicamente nuove crisi. Ma ci si chiede: fino a quando e fino a che punto l’attuale sistema neoliberista sarà in grado di governare le sue crisi e quindi di sopravvivere ad esse?