Una pagina di Sorel equivale a un atto politico. Una boccata d’aria pura, fuori dalla coltre ammorbata del pensiero unico. Solo la rivoluzione, attuata dal sindacato di classe, poteva pervenire al vero riscatto del popolo. Si trattava di riconoscere il fallimento delle “illusioni del progresso”, l’’ossessione “progressista” del capitalismo occidentale. Le enormi masse mondiali tagliate fuori dal circuito produttivista/consumista, rappresentano oggi, esattamente il “proletariato” soreliano.
Se andassimo in giro a ricercare qualche ultima arma da opporre allo straripante sistema mondiale di bolscevizzazione capitalista, dovremmo recarci, come in antico, dalle parti del mito. Ancora una volta, a fronteggiare le dilaganti polluzioni utopistiche degli illuministi al potere non potrebbe trovarsi che una macchina elaboratrice di simboli e di immagini. Un metodo capace di riattivare le sopite energie intuitive, legate al primordiale: ecco l’arcaica parola del futuro, che potrebbe dare un primo giro alla ruota della reazione. Poiché di grande, frenetica reazione dovrebbe trattarsi. Una reazione rivoluzionaria che la facesse finita con la caduta europea nel precipizio, e riequilibrasse i cervelli entro l’umano, il semplicemente umano.
Riapriamo dunque qualche forziere culturale troppo a lungo abbandonato nelle nostre soffitte ideologiche. Vi troveremo armi ancora nuove, ben lustre, ancora in perfetta efficienza. Si dovrebbe solo aggiungervi la volontà di impugnarle. Una pagina di Sorel, tanto per dire, oggi equivale a una riscoperta archeologica dirompente. Equivale a un atto politico. Una boccata d’aria pura. Riaccendere un attimo il pensiero di Georges Sorel e contemplarlo come un mondo di vita vera vissuta è come respirare liberamente: fuori dalla coltre ammorbata del pensiero unico, lontano dal pazzo omologarsi, oggi è ancora possibile formulare idee a pieni polmoni, prefigurando scene diverse, di rottura e di contrasto nei confronti del piattume universale. Rifacendosi per l’appunto a un modello concepito nel passato, ma per certi versi attualissimo. Una delle svariate formule sociali pensate un centinaio d’anni fa per azzerare la sindrome ugualitaria dei progressisti, che dovunque vada reca sfiguramento e degradazione. Vi sono formule ancora buone per mobilitare. La loro circolazione potrebbe ancora costituire l’antiveleno necessario alla disintossicazione universale.
La liquidazione del pensiero mitico, attuata alla metà del secolo XX, attraverso prima la violenza distruttiva e poi l’utilizzo martellante della propaganda terroristica, deve trovare la propria fine proprio al suo apogeo. Quando Sorel parlava di gloria e onore del ribelle proletario che non patteggia col potere borghese, ma solo lavora per abbatterlo, non faceva che ricordare a noi postumi che la storia può finire soltanto nel momento in cui anche l’uomo è finito. Qui si tratta di ridisegnare l’ideologia della contrapposizione, attraverso la presa di coscienza che l’ineluttabile non esiste. Lo strapotere mondiale del pensiero economico fondato sullo strangolamento identitario dei popoli può essere arrestato, più rapidamente di quanto si possa pensare, se solo si verificassero eventi tali, da mostrare un risveglio dei popoli. Ciò che Sorel invocava come il “proletario” che ingaggia la sua lotta mortale contro il potere borghese, oggi non è che l’uomo sovrano e identitario – l’uomo puro e semplice, l’uomo eterno – che si ribella a quella bolscevizzazione universale che è il liberalismo. La democrazia oligarchica e bancaria, con il suo capitalismo di sfruttamento globale, che al tempo di Sorel era ancora l’obiettivo della lotta di classe, oggi è il nemico principale del popolo, di tutti i popoli, di ogni strato sociale. Oggi le classi sono due, come al sorgere del socialismo, ma sono cambiati i referenti: da una parte il popolo (poiché esiste ancora un “popolo”), la “borghesia universale”, oppure il “proletariato universale”, il che è la stessa cosa, generati dal progresso capitalista; dall’altra parte la setta chiusa dei detentori del potere economico, sorda e reazionaria come mai prima. Qui davvero non può esserci patteggiamento, dialogo, pace sociale: come nell’ideologia di Sorel, qui non può esservi che lotta, ciò da cui possa scaturire la fortificazione di un contropotere in grado di attivare mito e azione. Chi rifiuta la bolscevizzazione liberale, questo magma di sopruso che uccide i popoli, bisogna che si affretti a schierarsi, come soleva accadere cent’anni fa.
Quello di Sorel fu uno scenario cui poterono attingere rivoluzionari dei più vari orientamenti europei, dai transfughi dal marxismo ai nazionalisti, dai sindacalisti ai socialisti eretici. In esso prendeva vita l’uomo nuovo a contatto con la tecnica, ciò che produce l’unione del lavoro e della solidarietà, operando la disciplina degli istinti vitali entro un programma concreto, realistico. La moralità del lavoro contro l’immoralità del consumo. Il lavoratore soreliano, il “produttore”, che può essere chiunque, qualunque sia la sua attività, combatte contro l’intellettuale, che è lo schermo vilissimo del potere, il suo portaborse, e contro chi mantiene l’intellettuale, cioè il potere economico egemone. Questo produttore – qualunque cosa produca: fatti, idee, cose – ricerca innanzi tutto il punto di rottura. Il conflitto, l’opposizione. Per Sorel, l’azione è tutto. La sua è una concezione eroica della vita, un interventismo perenne.
Al tempo di Sorel – il suo libro più famoso, Considerazioni sulla violenza, risale al 1908 – si poteva ancora parlare di proletariato, indicando la classe dei lavoratori che si opponeva a quella borghese. E si poteva ancora concepire che questa opposizione fosse innestata non certo sul dialogo, ma sull’uso della violenza. La quale era, e doveva essere, creatrice e palingenetica, liberatoria, così da rendere nulla sia l’aperta violenza sociale utilizzata dal potere capitalista per immobilizzare le classi subordinate, sia la più sottile violenza della prevaricazione, utilizzata con l’inganno della pace sociale ottenuta con la finzione tattica delle sporadiche concessioni. La via del riformismo, in cui capitale e lavoro paiono collaborare, ma in realtà mantenendo fermo il dominio del primo sul secondo, era da Sorel rifiutata. Solo la rivoluzione, attuata dal sindacato di classe, poteva eliminare i giochi parlamentari, i patteggiamenti democratici che i partiti riformisti socialisti praticavano senza che si potesse mai pervenire al vero riscatto del popolo. Il sindacalismo rivoluzionario, in un quadro di mitica costruzione dell’uomo nuovo faustiano, il protagonista della civiltà del lavoro, deve gestire la lotta fra le parti, vegliando a che non abbia a spegnersi, a tutto vantaggio dei potenti.
Il riecheggiare di queste terminologie, da tempo sopite negli animi perduti delle popolazioni assoggettate al capitalismo di ultima generazione, dovrebbe creare da sé il clima di un nuovo risveglio, come un tornare a muoversi di arti e congegni atrofizzati da decenni di inazione.
Questi lavoratori che non conoscono patteggiamenti, diceva Sorel, sembrano guerrieri antichi, essi sono i protagonisti di un nuovo mondo di simboli in azione, dato che, come scriveva, “bisogna fare appello ad un insieme d’immagini capaci di evocare in blocco e con la sola intuizione, prima di ogni analisi riflessa, la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna”.
Certo, si tratta di parole che sembrano, e sono, del tutto inattuali. Eppure, leggendo anche recenti testimonianze e ricerche, si ha la sensazione che non si tratti di materiale trapassato, ma di una segreta e ancora viva favilla che langue sotto la cenere. Del resto, il tipo di società che ci sta di fronte è il medesimo di un tempo: da una parte i potenti mondiali, dall’altra i popoli aggiogati. Il senso della contrapposizione è il medesimo di sempre.
Il pensiero di Sorel, che è un universo di contraddizioni e una foresta di simboli, presenta ancora oggi un gran valore ideale perché veicola il connubio di un’etica con l’istinto della forza, ethos e kratos, due energie inquadrate dal valore mitico gestito dall’aristocrazia di popolo, senza le quali l’opposizione sociale e politica si restringe al recitativo dell’impotenza claustrale.
Recentemente, rilanciando la figura di Sorel nel momento più buio della moderna storia sociale, si è toccato giustamente il tasto sensibile della questione: la necessità di produrre, al fine di pervenire ad un reale posizionamento alternativo, “un elevato grado di cultura morale”. Questo insistere sul bisogno di una nuova, grande politica fondata sull’etica dell’interventismo, è presente nel libro di Cristian Leone intitolato La via di Sorel al socialismo (Luni editrice), un testo da cui traspare, una volta di più, la densità delle risorse intellettuali delle generazioni di un secolo fa e, all’opposto, la miseria morale del mondo culturale e intellettuale dell’epoca presente, annichilito da decenni di massacro cerebrale da parte del potere cosmopolita. Leone, tra l’altro, spiega bene come il progetto soreliano (che, sollevato dai riferimenti della contingenza storica, può essere considerato valido per ogni epoca) avesse il suo fulcro proprio in un insieme comunitario di cultura politica:
Il socialismo di Sorel può essere definito come un socialismo etico e volontaristico in cui il proletariato, asceso a un superiore grado di moralità (il sublime), forza, attraverso il ruolo mobilitante del mito, lo schema deterministico e, inquadrato totalmente nel sindacato, abbatte lo Stato borghese. È la morale, e non la semplice appartenenza a una determinata classe, a rappresentare il presupposto determinante per l’inserimento dell’uomo nella comunità e a stabilire un nuovo vertice della gerarchia sociale.
Contro la sfigurante incultura oggi dominante ad ogni livello, questo richiamo alla “cultura morale” delle minoranze attiviste appare essenziale. Attraverso questo fenomeno di rinascenza etica, ciò che dovrà farsi largo è il mito comunitario di mobilitazione. Poco importa che Sorel si riferisse alle categorie fisse del suo tempo: classe, proletariato, borghesia, sindacato, che oggi possono apparirci obsolete. In realtà, la classe unica cui ormai appartengono i popoli e le enormi masse mondiali tagliate fuori dal circuito produttivista/consumista, rappresentano, insieme, esattamente il “proletariato” soreliano. Di fronte gli si erge, oggi come allora, la mole dura del potere globalista.
Non saranno i sindacati o i partiti, nel frattempo liquidati dai comitati politici d’affari, a riaprire la partita. Bisognerà che si disponga un clima di esasperazione tale, che solo attraverso l’attivazione di energie emozionali potrà esser possibile il cambiamento. Sorel, su questo punto, fu ben più espressivo di un Marx, muto e defunto, e la sua parola mantiene intatto il suo valore di fondo, anche in un’epoca così diversa.
Ciò che conta, in ogni frangente, è l’assetto mentale, la predisposizione all’azione, l’entusiasmo e la fiducia in un progetto cui dar vita, qualcosa di vivo in grado di operare trascinamento e mobilitazione. Come ribatte ancora Cristian Leone,
Sorel vede nel mito rappresentato dallo sciopero generale l’unico motore dell’agire umano, un insieme legato non da idee ma da immagini motrici, capaci di evocare “in blocco e attraverso la sola intuizione, prima di ogni analisi riflessa”, tutti i sentimenti corrispondenti ad una azione progettata. Il mito non si definisce, non si discute razionalmente ma “è solo l’insieme del mito che importa”.
Come ognuno sa, Sorel veicolò una concezione del socialismo tutta sua, che però non rimase astratta, ma ebbe precise ricadute su ambiti diversi, e spesso molto diversi, nella realtà politica e sociale del suo tempo. Il suo pensiero rivoluzionario e insieme conservatore ebbe grande influenza a destra come a sinistra, animò il socialismo come il fascismo, la sua via sindacale ebbe riscontri ovunque si volesse abbattere l’ottusità delle vecchie consorterie e si volesse erigere un potere nuovo, espressione del popolo, ma guidato da avanguardie militanti. Si trattava di riconoscere il fallimento morale e politico delle “illusioni del progresso”, come denunciato a suo tempo da Sorel, un’ossessione “progressista” per forza legata al parlamentarismo e al capitalismo occidentali. E si trattava di imboccare strade nuove. Nelle energie occulte dell’irrazionale popolare riposano le riserve di azione oppositiva. Nel mito politico. Questo ben lo comprese Sorel, e lo ripeterono in molti nei decenni passati, sotto tutte le bandiere della rivolta. Per dire di un caso: pensiamo solo a quanto scritto nel 1978 da Hans Jürgen Syberberg, il famoso regista e sceneggiatore, che è stato un audace sintetizzatore espressionista di estremi del tipo di Richard Wagner e Fritz Lang: “Solo nel mito, in quest’atto che esprime la volontà umana di creare civiltà, possiamo tornare a essere, a testa alta, padroni della nostra storia”.
Vedremo se la società contemporanea, minacciata da vicino di dispersione e finale assoggettamento, sarà in grado prima di ricordare, poi di comprendere, e infine di plasmare un sistema di valori antagonisti. E vedremo se davvero i popoli, stanchi di subire il dominio dei distruttori di civiltà, vorranno veramente costruirne una nuova. A quel punto, la lotta non sarà più fra classi, ma fra visioni del mondo.