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L’EURASIA DI GIUSEPPE TUCCI

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Eurasia è la nostra naturale appartenenza, la sede terracquea del destino, la struttura storico-politica unitaria che è sempre stata, sin dal sorgere della civiltà umana. Giuseppe Tucci riprese l’idea tardo-ottocentesca eurasista, un’idea già impastata di motivi anche sapienziali, legati ad apporti di scienza per così dire tradizionale,  intese a recuperare l’Oriente dal punto di vista culturale, per reinserirlo sull’asse storico europeo.

Mai come in questo periodo c’è bisogno di schiarirsi le idee sulla geopolitica mondiale, cercando di opporre qualcosa allo strapotere dell’ignoranza dilagante, che intasa tutti i canali dell’informazione sotto la pressione degli interessi cosmopoliti.

Il compito sarebbe molto arduo. Implicherebbe niente di meno che il rovesciamento concettuale, prima ancora che politico, della corrente concezione internazionale. Si tratta di riposizionare l’idea stessa di Europa, di sottrarla alla dominazione psicologica – prima ancora che politica ed economica – dell’Occidente atlantista, rompendo il malefico circuito che ci ipnotizza da ottant’anni, facendoci credere di essere un’appendice fortunata del centro del mondo e, soprattutto, che questo centro del mondo sarebbe rappresentato dagli Stati Uniti d’America.

Proprio l’urgenza causata dalla (finta) guerra fra Russia e Ucraina imporrebbe di riconsiderare l’angolatura dalla quale gli europei sono stati abituati a guardare il mondo. Lo spiraglio dal quale gli Stati Uniti costringono i popoli europei a osservare l’esterno è una forzatura decentrata. La prospettiva è sbagliata, è una visuale parziale, incompleta.

La realtà geopolitica dei fatti è oggigiorno rappresentata dal fatto che la periferia del mondo è per l’appunto la sfera atlantica, ristretta nel suo angolino a nord-ovest, staccata e lontana dai centri nevralgici del pianeta, dalle masse antropologiche e da quelle telluriche, dal centro del mondo, insomma, che, classicamente, è stato individuato da tempo nell’Asia centrale, l’Heartland. Il grosso del mondo è fuori dal controllo americano, ed è esterno alla sua capacità di presa. E le masse demografiche planetarie sono ampiamente non-atlantiche. Se l’Euroamerica è una finzione che non sta storicamente e geograficamente in piedi, poiché tiene insieme due corpi divaricati e lontani, costretti all’omogeneità solo con la costrizione economica e con la tacita forza di ricatto costituita dalla presenza militare, l’Eurasia sarebbe invece, molto semplicemente, la naturale appartenenza, la sede terracquea del destino, la struttura storico-politica unitaria che è sempre stata, sin dal sorgere della civiltà umana. Il bacino mediterraneo e la sua fisiologica unione con la massa continentale asiatica, di cui l’Europa costituisce il promontorio occidentale, nella loro continuità danno vita ad un organismo vitale, un monoblocco primordiale che costituisce di per sé, per il solo fatto d’esistere, un motivo plausibile per la sua importanza politica. Si tratta soltanto di osservare il mappamondo e di tirare le conclusioni.

Questo implicherebbe l’imporsi di una nuova prospettiva politica, di una nuova cultura globale.

Ci sono stati tempi in cui la coscienza geopolitica, in Italia, non era soffocata dal dinamismo espansionista nordamericano né condizionata dal fatto che, in quel bacino trovato semivuoto dagli esploratori europei e dai loro successori, i coloni quaccheri e giacobini, vi si rovesciarono quote etniche europee, ciò che spesso ha ingenerato l’equivoco che si trattasse di fratelli d’oltreoceano. In realtà, il vero e proprio cainismo dell’America del nord nei confronti dell’Europa, crediamo sia stato abbastanza dimostrato dalla storia del secolo XX, e dal risultato politico di ben due guerre mondiali di annientamento, portate a termine dall’America col fine di ridurre l’Europa a perpetua soggezione.

E dunque, dicevamo, ci sono stati tempi, prima che questa condizione di sudditanza felice venisse codificata apparentemente per sempre, in cui gli europei avevano cognizione della portata geopolitica del loro continente. Noi, in Italia, dobbiamo a uomini come Giuseppe Tucci una coscienza continentale. Questo crea una nuova, più elevata cultura. In grado di saldare il presente moderno né più né meno che con la politica svolta sin dall’antichità; poiché il mutare dei millenni non ha per nulla mutato la condizione realistica, legata all’osservazione geopolitica degli spazi.

C’era infatti in quei contesti la consapevolezza che la politica avesse delle regole immutabili, che si svolgesse su un terreno di geografia sacra solo all’interno della quale i fatti avevano plausibilità. Giuseppe Tucci riprese l’idea tardo-ottocentesca eurasista, per lo più russa, che poi venne rielaborata dal McKinder, dal Ratzel, e dai nuovi geopolitici d’impostazione etnografica (tipo Gumilev), un’idea già impastata di motivi anche sapienziali, anche esoterici, legati ad apporti di scienza per così dire tradizionale, cui non furono estranei gli studi moderni di indoeuropeistica, e neppure certe tendenze – come ad esempio la teosofia – intese a recuperare l’Oriente dal punto di vista culturale, per reinserirlo sull’asse storico europeo.

E, già da qui, noi verifichiamo che Eurasia significa cultura profonda, anima della civiltà, laddove Euroamerica non significa proprio niente di più che Quinta strada e commercializzazione dell’esistenza ai più bassi livelli. Plastica dimostrazione della differenza sostanziale che corre tra i due emisferi politici, è il fatto che i grandi eurasisti furono anche grandi studiosi della cultura e della religione orientale: da Haushofer (che Tucci, suo amico, invitò più volte in Italia negli anni Trenta, per tenere conferenze) fino a Mircea Eliade, a Mario Bussagli e al suo maestro, Tucci stesso, che probabilmente fu il maggior conoscitore al mondo delle culture himalaiane, non c’è geopolitico che non sia anche uomo d’alta cultura. Furono i sostenitori moderni della concezione greco-antica che vedeva – come ad esempio nella cultura Gandhara – l’unità indissolubile fra mondo mediterraneo ed asiatico-alessandrino. Una concezione, al cui approfondimento contribuirono molto gli studi di indoeuropeistica, ad esempio di un Dumézil, non a caso anch’egli in rapporti amichevoli con Tucci, e che molto contribuirono a far riemergere la memoria di una comune origine, di un comune retaggio. Dall’altra parte, invece, l’unico argomento d’alta cultura, per così dire, che ha affiancato l’occupazione manu militari dello spazio nordamericano – previo impunito etnocidio delle tribù che vi vivevano dai tempi protostorici – risulta essere la pretesa di aver trovato un’ennesima terra promessa, la “nuova Sion”, come da taluni è stata dichiarata ufficialmente la terra su cui si è innestata la repubblica stellata. Dovrebbe essere facile, per l’Europa, stabilire con quale parte del mondo mettersi in sintonia, oltre che geografica, anche storica e culturale.

Giuseppe Tucci, fondatore, insieme a Giovanni Gentile, nel 1933, dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente di Roma, al fine di promuovere i rapporti e la reciproca conoscenza fra Europa e Asia, rappresenta al meglio la figura del grande studioso e quella dell’altrettanto grande esploratore, due specializzazioni riunite al più alto livello in un solo uomo.

Nel mentre l’occhio di Tucci si posava in modo speciale sulle culture himalaiane, ciò che veniva fatto non era una divagazione esotica verso culture aliene. Convinto della stretta rispondenza fra Europa e area centroasiatica, Tucci vide proprio nel Nepal, e nelle fasi di civiltà che in quella zona si svilupparono, una concordanza, un sistema di concatenazioni, tale che studiare la seconda sul campo voleva dire approfondire al tempo stesso la conoscenza della prima. I numerosi viaggi da lui compiuti in Oriente, sin da giovane, dal 1925, quando, sovvenzionato dal governo di allora, raggiunse Tagore nel Bengala e iniziò quella vasta perlustrazione del subcontinente indiano e delle province himalaiane – dal Darjeeling al Ladakh, dal Sikkim al Kashmir al Nepal – furono lo strumento col quale penetrò visivamente, per esperienza diretta, entro le maglie della cultura e della religiosità di quei luoghi. Questo significò essenzialmente conoscere il buddhismo, e più ancora il suo diretto antecedente, l’arcaica religione bon, di origine indoeuropea, autentico relitto antropologico-culturale, con intrecci persiani, mazdei, di lontanissima origine[1]. Il grumo inestricabile di apporti, influenze reciproche, scambi e rigetti che si verificarono nel sapere, nei culti, ma anche nell’arte e nelle vicende politiche, venne da Tucci interpretato come l’essenza della sua concezione eurasista, nel senso che doveva trattarsi, ai suoi occhi, di un unico organismo. Molte volte Tucci tornò su questo suo concetto, ed anche ampliandolo:

E poi, il Nepal non è sospeso nel vuoto; esso è parte di quel complesso di culture asiatiche che fin dall’alba della storia fu con l’Europa, per continui legami e commerci, congiunto: a tal punto che ne derivò una unità di tutto il mondo antico, quella che io direi solidarietà euro-afro-asiatica, intessuta di invasioni e di resistenze, di scambi e di concorrenze, di mutevoli espansioni e ripulse ma, appunto per questa sua varietà e confluenza, partecipazione o contrasto, così operosamente creatrice che soltanto nel triplice continente, diverso ed uno, si svolsero le più grandi avventure dell’intelletto e della fantasia.[2]

Con questo, noi vediamo che la classica concezione eurasista storica, di cui dicevamo, si arricchiva con Tucci di uno spazio, quello africano, con cui sempre la civiltà europea era entrata a vario titolo in contatto, anche se, per lo più, limitatamente alla fascia settentrionale di quel continente, ma non solo e non sempre. Questo rende la prospettiva di Tucci del tutto attinente alla scienza geopolitica emergente negli anni Venti-Trenta del Novecento, e che in Italia ebbe uno sbocco nella rivista “Geopolitica” uscita nel 1939 su iniziativa di Bottai, e strumento culturale dell’effimera concezione imperiale che stava allora formandosi nel nostro paese. Che nell’idea di “grande spazio” comprendeva appunto Africa e Asia, quali “prolungamenti” naturali dell’Europa. E, però, tale inquadratura indagava anche il ruolo atipico da sempre svolto dalla Russia, nella sua condizione di massa bicontinentale, e pure l’Estremo Oriente, come finale fase espansiva di una medesima cultura. Quella zen, ad esempio, nella quale Tucci vide una sorta di scuola filosofica utile anche per il mondo europeo, al fine di potenziare mentalmente l’uso della volontà, secondo un’ascesi eroica da applicare alla vita quotidiana: «Lo Zen abitua a questa serenità di fronte alla morte della quale non fa più caso che del trapasso da una stagione dell’anno in un’altra»[3].

Quelli erano i fecondi anni giovanili di Tucci, che andava e veniva dall’India, studiando sul campo, ma anche facendo ricerche presso istituti, scuole, personalità, come ad esempio lo studioso di sanscrito Dasgupta e il suo allievo Eliade, conosciuti entrambi a Calcutta, oppure Karl Harrer, l’autore di Sette anni in Tibet, che Tucci conobbe più tardi, nel 1948, presso il Dalai Lama a Lahsa[4]. Harrer non era stato che l’esponente di quella cultura etnografica che, negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, aveva svolto con gli antropologi Ernst Schäfer e Bruno Beger pionieristiche ricerche sul campo proprio nel Tibet segreto.

Bisogna dire che il rispetto e l’amore che Tucci coltivò per le culture orientali non erano il frutto di una mentalità razionale e freddamente compulsiva. Egli, più ancora che studiarli, visse certi stati d’animo, cercando, in ogni caso, di rinvenire, oppure anche solo presentire, le tracce dell’antica comunanza eurasiatica. Come quando, tra le nascoste popolazioni himalaiane, andava indagandone l’identità incorrotta. Sono genti riservate che mantengono sempre una certa distanza, notava Tucci:

In virtù di questo sospettoso riserbo, le migrazioni umane penetrate da secoli, forse da millenni, nel cuore dell’Imalaia si sono protette da connubbi e mescolanze; naufragate in un mare di razze diverse, esse si sono mantenute incontaminate. Non c’è dubbio che i comuni antenati, se ancora sopravvivessero, più in loro che in noi si riconoscerebbero.[5]

Era la medesima sensazione che l’assalì nel considerare la religione lamaista e quella indù, nel loro convivere senza ibridarsi, ma arricchendosi vicendevolmente, e in diretto contatto con una sfera che Tucci diceva di avvertire, al di sotto di quei grandi culti, come se agisse un’anima arcana, in cui poteva «ardere il fuoco delle primitive aborigene credenze»[6].

Questa tenacia identitaria nel voler sopravvivere ci parla di un dato da Tucci rilevato come costante del mondo orientale, nonostante la sovrabbondanza di intrecci culturali e religiosi. Questo risalta bene nella religione indiana, quando, ad esempio, la scuola del filosofo Ramanuja, esponente importante della teologia vedantina, nega ogni concetto universalistico, rappresentando la realtà come contenuta entro dinamiche di analogia, ma non di uguaglianza: «l’universale non esiste»[7]. Bell’insegnamento, questo, da impartire oggi ai nostri incolti, provincialissimi cosmopoliti.

 

 

 

[1] Cfr. Giuseppe Tucci,Le religioni del Tibet [1958], Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pp. 262-263, in cui si parla dei «chiari influssi da parte iraniana e in particolare zurvanita» nella religione autoctona bon, sopravvissuta alla diffusione del buddhismo.

[2] Tucci, Nepal: alla scoperta del regno dei Malla, Newton Compton, Roma 1977, p. 13.

[3] Tucci, Lo Zen e il carattere giapponese [1938], in Id., Sul Giappone. Il Buscidô e altri scritti, Settimo Sigillo, Roma2006, p. 42.

[4] Cfr. Tucci, Non sono un intellettuale, a cura di Maurizio Serafini e Gianfranco Borgani, Il Cerchio, Arte Nomade Edizioni, Macerata 2017, pp. 107-108.

[5] Tucci, Nepal, cit., pp. 55-56.

[6] Tucci, Tra giungle e pagode [1953], Newton Compton, Roma 1979, p. 96.

[7] Tucci, Storia della filosofia indiana[1957], Laterza, Roma-Bari 1977, vol. II, p. 461: «Anche Ramanuja pensa che l’universale non esiste; ma ammette una fondamentale simiglianza fra diversi individui; non c’è una qualità che sia del tutto comune a tutti gli individui, c’è soltanto un’analogia fondamentale fra gli uni e gli altri».

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