Il tramonto dell’egemonia globale statunitense sancisce la fine del secolo americano. Gli USA si trovano dinanzi ad un bivio: ritirarsi dall’area o provocare un conflitto di assai più vasta portata. Il ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali ha emesso una sentenza inappellabile: l’egemonia globale è impossibile. Il mondo multipolare avrà per protagonisti gli Stati – Civiltà insediati in vaste aree continentali costituite dai popoli più diversi, ma unificati da valori identitari etico – politici comuni.
Un dopo – Gaza indecifrabile
Gaza è l’epicentro di uno scontro che coinvolge l’intero assetto dell’area mediorientale, quale teatro di un conflitto geopolitico dai riflessi mondiali. Nel conflitto che oppone Israele ad Hamas sono coinvolti anche attori maggiori, quali gli USA e l’Iran, sostenuto da Cina, Russia e altre potenze minori quali il Sudafrica. E’ in gioco il predominio sull’intero Medio Oriente. A Gaza dunque, è in pieno svolgimento una fase della Guerra Grande.
Netanyahu è determinato a conseguire una vittoria decisiva che comporti, non solo lo sradicamento di Hamas da Gaza, ma anche la fine della questione palestinese. Il conflitto di Gaza rappresenta l’epilogo di un disegno politico di Netanyahu e della destra ultraortodossa israeliana, che consiste nel rendere impossibile la creazione di uno stato palestinese. La strategia di Netanyahu è stata per decenni quella di dividere i palestinesi della Cisgiordania sotto l’amministrazione della ANP e di Gaza, in cui il radicamento di Hamas è stato largamente favorito da Israele, nel consentire il trasferimento dei fondi del Qatar ai palestinesi. Non sussistendo quindi un organismo legittimo e unitario dei palestinesi, ogni trattativa sarebbe stata impossibile. E pertanto, l’unica soluzione possibile della questione palestinese sarebbe scaturita dalla progressiva occupazione da parte dei coloni israeliani dell’intera Cisgiordania, con relativa emigrazione in massa dei palestinesi stessi. L’attacco del 7 ottobre ha costituito una insperata occasione per Netanyahu, la cui leadership era già largamente screditata e oggetto di aspre contestazioni popolari, con accuse di corruzione e per progetti di riforma ritenuti antidemocratici, di legittimarsi quale premier di un governo unitario di emergenza, che ha ricompattato un paese dilaniato da conflitti interni, in nome della sicurezza nazionale.
Certo è la fine della guerra comporterà necessariamente anche le dimissioni di Netanyahu, che è quindi determinato a prorogarla all’infinito, col miraggio di una vittoria definitiva su Hamas. Questo obiettivo si sta rivelando tuttavia impossibile. Nonostante la guerra di sterminio messa in atto da Israele, con l’uccisione di quasi 30.000 palestinesi, l’occupazione di Gaza non ha distrutto che il 30% delle potenzialità belliche di Hamas e riguardo ai dati sulle perdite inflitte all’esercito israeliano vige una assoluta censura. Aggiungasi poi che la deportazione dei palestinesi da Gaza è altresì impossibile, data l’indisponibilità dell’Egitto e degli altri paesi arabi ad accoglierli. E’ assai improbabile una nuova “Nakba”.
Scindere poi la tragedia della popolazione civile dalla guerra “terroristica” di Hamas è del tutto infondato. La popolazione palestinese si identifica del tutto con la causa di Hamas e dell’Asse della Resistenza. Ciò giustificherebbe dunque la guerra di sterminio di Israele? Il genocidio in atto a Gaza, unitamente al regime di apartheid imposto ai palestinesi in Cisgiordania, incideranno profondamente sulle nuove generazioni palestinesi: Hamas assurgerà a simbolo indelebile della lotta per la liberazione della Palestina. Gaza è un punto di non ritorno, sia per Israele che per l’Asse della Resistenza. Quand’anche si desse luogo ad una totale deportazione dei palestinesi dalla propria terra, sussisterebbe sempre l’identità nazionale di un popolo senza stato nella diaspora. Esattamente come fu per gli ebrei nei secoli.
Vari piani di pace si sono succeduti negli anni senza successo. Il fallimento degli accordi di Oslo ha comportato la fine della prospettiva dei due stati. Si ipotizzano peraltro inverosimili progetti di governo per Gaza con la partecipazione degli stati arabi e della Turchia, fantomatiche rivitalizzazioni dell’ANP (quale organismo di rappresentanza dei palestinesi riconosciuto in sede ONU ma delegittimato dai palestinesi stessi), con l’adesione di Hamas. Tutti i progetti di pacificazione dell’area sono falliti perché sono stati concepiti senza il consenso dei palestinesi. Anzi, tali accordi avrebbero confinato i palestinesi in piccole enclave prive di qualsiasi autonomia. L’unica soluzione teoricamente possibile sarebbe quella della creazione di uno stato unico multietnico sul modello sudafricano. Ma dato il clima di odio ulteriormente radicatosi tra ebrei e palestinesi, tale soluzione per ora si rivela impraticabile. Il dopo – Gaza resta comunque indecifrabile.
La vittoria strategica di Hamas
Netanyahu è oggetto di aspre contestazioni per l’inefficienza dimostrata dall’intelligence e dagli alti comandi dell’esercito nel prevenire l’operazione Al Aqsa, per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas. Ma non si deve credere che con la sua destituzione la linea politica di Israele possa subire rilevanti mutamenti di indirizzo. La leadership di Netanyahu è durata (a fasi intermittenti), per 20 anni in virtù del consenso popolare riscosso ed oggi, la maggioranza degli israeliani, pur contestando il premier, secondo un recente sondaggio, approva per l’80% l’azione di pulizia etnica condotta da Israele a Gaza.
Israele concepisce questo conflitto come una “guerra esistenziale”, che si inserisce in un contesto assai più vasto, che coinvolge l’intero Medio Oriente. Negli scorsi anni, gli insuccessi degli interventi degli americani in Iraq, Siria e Afghanistan, hanno determinato una espansione dell’area di influenza iraniana fino al Mediterraneo. Israele, in questa nuova configurazione geopolitica del Medio Oriente, si trova ad essere isolato, specie dopo la pace conclusasi tra Iran e Arabia Saudita con il patrocinio della Cina e il venir meno, nei fatti, del Patto di Abramo. Lo Stato ebraico è esposto ad una guerra incessante, sebbene a bassa intensità, ai confini del Libano e Siria con Hezbollah, alla perenne conflittualità con la popolazione araba della Cisgiordania ed è minacciato nel Mar Rosso dalle azioni degli Houthi yemeniti. Alla lunga, potrebbe uscirne logorato.
Pertanto, dopo i prossimi bombardamenti su Rafah ed una fase in cui Netanyahu potrebbe mediaticamente spacciare l’operazione di Gaza per una vittoria totale su Hamas, Israele potrebbe mirare ad un allargamento del conflitto al fine di rompere l’accerchiamento del blocco filo – iraniano, che implicherebbe necessariamente il coinvolgimento diretto degli USA. Ma l’egemonia americana nell’area mediorientale è ormai tramontata e gli USA non hanno l’intensione di intraprendere nuove guerre in Medio Oriente, dopo i ripetuti insuccessi che hanno gravemente inficiato il suo status di superpotenza.
Questo conflitto segna la fine del Patto di Abramo. Con tali accordi, siglati anche dagli USA, a seguito del riconoscimento dello Stato ebraico da parte degli E.A.U., del Bahrein, del Marocco e con la possibile adesione dell’Arabia Saudita, Israele avrebbe assunto un ruolo giuda nella coalizione e lo status di prima potenza militare e finanziaria nell’area, nel quadro del ripristino di una egemonia indiretta americana in Medio Oriente. Dopo il 7 ottobre Israele è isolato e minacciato, in un contesto di paesi ostili sostenuti dalle potenze dei BRICS+.
Israele pertanto ha assunto un atteggiamento vittimistico, evocando la memoria dell’Olocausto e nell’ottica propagandistica del mainstream occidentale, il genocidio di Gaza si è tramutato in una guerra di autodifesa esistenziale contro i palestinesi e gli stati islamici che ne minaccerebbero l’esistenza. Da questa narrazione mediatica emerge quindi una evidente mistificazione della realtà. Così si esprime Hanan Ashrāwī a tal riguardo in una intervista da titolo “I due stati non si faranno” pubblicata sul numero 1/2024 di “Limes”: “Da quando un occupante rivendica l’autodifesa contro l’occupato? Siamo al ribaltamento dei ruoli: la vittima è Israele che si difende dal brutale palestinese. Il prima non esiste più, ma è in quei 75 anni precedenti che vanno cercate le cause del disastro. Non mi stancherò di gridarlo: Israele uccide, distrugge, massacra e continua ad agire in totale impunità. Al massimo, non deve eccedere. Ma qual è la soglia dell’eccesso? Diecimila bambini uccisi? Due milioni di persone ridotte alla fame? Due terzi degli edifici rasi al suolo? Hanno aperto il fuoco anche contro i civili che aspettavano gli aiuti umanitari. Erano anche loro dei terroristi? L’odio, la violenza non nascono dal nulla. Sono il frutto avvelenato della cattività imposta a due milioni di persone a Gaza e a quelle murate della Cisgiordania”.
L’operazione Al Aqsa del 7 ottobre è del tutto coerente con la strategia messa in atto da Hamas da decenni. La causa palestinese prima del 7 ottobre era stata derubricata dall’agenda internazionale. La strategia di Hamas, da sempre, consiste nel provocare eventi eclatanti al fine di far riemergere nel contesto geopolitico mondiale la causa palestinese, con lo scopo di coinvolgere la Palestina negli interessi e nei disegni politici dei paesi dell’area mediorientale. Nell’ottica di Hamas dunque, l’operazione Al Aqsa rappresenta un successo: la causa palestinese è divenuta decisiva per la riconfigurazione politica dell’area mediorientale, oltre a divenire decisiva per l’implementazione dei nuovi equilibri geopolitici mondiali che si stanno delineando nella Guerra Grande.
USA: una egemonia globale impossibile
L’attuale Caoslandia deriva dalla decadenza degli USA, quale unica superpotenza garante dell’ordine globale unilaterale. Gli USA sono afflitti da tempo da una crisi identitaria che ha generato profonde contrapposizioni conflittuali nella popolazione. Sono venuti meno i miti fondativi che erano alla base dei valori unificanti in cui il popolo americano si è sempre riconosciuto. Il mito messianico del destino manifesto atto a legittimare l’espansionismo americano su scala globale è venuto meno. Le ripetute sconfitte nelle guerre preventive contro gli “stati canaglia” hanno profondamente inciso sulla stessa identità politica e culturale degli USA.
La fine della deterrenza armata della superpotenza americana ha generato la Guerra Grande. Come afferma Lucio Caracciolo nell’editoriale “Cronache dal Lago Vittoria” del numero di “Limes” sopracitato: “Causa prima della Guerra Grande è la rapida decadenza dell’impero americano. La pretesa globale ha intaccato la nazione. Ne mette in questione l’esistenza. E ne svela il fondo maniaco – depressivo. Malattia degli imperi, oscillanti tra delirio di onnipotenza, con relativo eccitamento psico – motorio, e depressione catatonica, manifestata da abulia e distimia. In meno di trent’anni il Numero Uno è trascorso dall’unipolarismo geopolitico al bipolarismo psichico”. Dello stato depressivo diffuso che affligge il popolo americano, se ne erano già avvertiti i sintomi nella guerra del Vietnam: dissoltosi il mito della invincibilità americana, il popolo ha iniziato a non riconoscersi più nelle istituzioni del proprio paese. Evidentemente, per gli USA, la psicolabilità collettiva è un tratto distintivo della loro identità. Questa patologia ha poi contagiato tutto l’Occidente.
E’ tuttavia improbabile il prefigurarsi di un futuro isolazionista per gli USA. La stessa unità nazionale degli Stati Uniti potrebbe non sopravvivere alla fine dell’impero americano. Per gli USA l’espansionismo è connaturato al loro “essere nel mondo” e quindi appare del tutto logico il loro perseverare nella strenua difesa del loro ruolo egemonico nel mondo, rivelatosi nel tempo insostenibile.
Nel conflitto israelo – palestinese è in gioco l’egemonia sul Medio Oriente tra due contendenti: USA – Israele e Iran – BRICS. Gli USA si trovano quindi dinanzi ad un bivio: ritirarsi dall’area o provocare un conflitto di assai più vasta portata.
L’obiettivo primario degli USA è il contenimento dell’influenza iraniana sul Medio Oriente. In caso di ritiro americano da Siria e Iraq, le conseguenze sul piano geopolitico sarebbero per gli USA devastanti: oltre che all’isolamento di Israele, un ritiro americano darebbe luogo all’espansione economica e politica nell’area della Cina e della Russia, accrescerebbe lo status di potenza regionale della Turchia e comporterebbe la fine dell’influenza americana sulla penisola arabica, dato che Arabia Saudita ed E.A.U. si inserirebbero nei nuovi equilibri geopolitici mediorientali. Inoltre, poiché dopo l’abbandono dell’Afghanistan la credibilità della deterrenza americana è già a livelli minimi, per Biden, una ulteriore ritirata anche dal Medio Oriente, pregiudicherebbe in misura rilevante le possibilità di una sua rielezione alla Casa Bianca.
Fallita la strategia del dominio indiretto, esercitato cioè mediante il primato di Israele nell’area, agli USA, il cui coinvolgimento diretto in un conflitto più esteso è auspicato dallo Stato ebraico, resterebbe solo l’opzione della guerra totale per ripristinare la propria egemonia. Tale scelta è per gli USA impraticabile. L’America infatti dovrebbe impegnarsi in una guerra con l’Iran e i suoi alleati e contemporaneamente far fronte al contenimento della Cina nel Pacifico (che è una sua priorità strategia), a sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia e a preservare inoltre la sua presenza in un’Africa insidiata dall’espansione delle potenze del BRICS. Lo stesso sostegno incondizionato americano a Israele, oltre a suscitare una vasta ondata di antisionismo e antiamericanismo in tutto il mondo, ha avuto l’effetto di compromettere seriamente i rapporti degli USA con gli alleati arabi dell’area. Aggiungasi poi, che la potenza talassocratica americana non più in grado nemmeno di garantire la sicurezza delle rotte di navigazione mercantile nel mondo. Nel Mar Rosso è in corso la missione Aspides, a protezione dei mercantili in rotta fra Hormuz, il golfo di Aden e Suez, quale scudo navale di difesa dalle azioni ostili degli Houthi. Una tale situazione è peraltro replicabile su scala globale, in tutti gli stretti oceanici di importanza vitale per il traffico commerciale mondiale. E i focolai di conflitto si moltiplicano ovunque. La sovraesposizione americana nel mondo è evidente: l’insostenibilità dello status di superpotenza globale è la causa del suo declino.
Occorre inoltre rilevare che la strategia dei bombardamenti indiscriminati in Iraq, Siria, Afghanistan, praticata dagli americani e rivelatasi perdente, è stata replicata da Israele a Gaza. Un errore fatale è stato commesso: Hamas è stato considerato un movimento islamico radicale alla stregua dell’ISIS, dei takfiri ecc… Oltre a non considerare il livello degli armamenti e dell’organizzazione dei militanti assai più avanzato di Hamas rispetto a quello dell’ISIS, è stato del tutto trascurato il grande consenso popolare a suo sostegno.
L’errore capitale di Israele è l’aver ignorato che Hamas, così come Hezbollah, gli Houthi e altri, sono entità non statuali profondamente radicate sul territorio, dotate di classi dirigenti che oggi incarnano l’identità politica e spirituale dei loro popoli. L’assimilare Hamas alle bande mercenarie tagliagole dell’ISIS, rivela l’inveterato suprematismo razzista di cui sono affetti sia gli USA che Israele, accomunati da un dogmatismo teologico – veterotestamentario, che preclude loro una visione obiettiva della realtà storica e soprattutto gli impedisce di comprendere l’identità e le ragioni del nemico.
Inoltre in Israele, così come negli USA, il dominio della tecnocrazia ha prodotto una assenza di strategia sia militare che politica, che può condurre solo ad una debacle geopolitica irreversibile.
Il tramonto dell’egemonia globale statunitense è un chiaro sintomo della fine del secolo americano. Alain de Benoist in un libro del lontano 1976 dal titolo “Il male americano”, esponeva delle considerazioni sul destino degli USA che oggi potrebbero rivelarsi profetiche: “L’America di oggi è un cadavere in buona salute. Con la sua immensa potenza materiale, con la sua estensione geografica, col suo gusto di gigantic e con la fruttificazione del suo capitale, (proprio come l’Unione Sovietica) ha potuto creare delle illusioni. Ponendo l’accento sui fattori materiali, sugli elementi quantificabili, ha imposto al mondo l’ideale della superproduzione. Ma questo è sufficiente a garantirne l’eternità? Prigionieri del desiderio di <vivere alla svelta> (fast life), gli Stati Uniti scompariranno brutalmente come sono sorti; più presto di quanto non si creda, forse. Nella scala delle nazioni, saranno stati quello che certi uomini sono all’ordine degli individui: degli imbonitori chiassosi e dotati, ma che non lasciano traccia perché la loro opera è una sbruffonata. L’Impero romano, dopo essere stato una realtà, fu un’idea, che conformò la vita dell’Europa per mille anni. L’<impero> americano non potrà durare che nel suo presente. Può <essere>, ma non può <trasmettere>. Dopo avere consumato tutto prima che arrivasse a maturazione, non avrà niente da lasciare in eredità”.
Gli USA potrebbero essere considerati dagli storici del futuro un fenomeno storico a rapida obsolescenza, alla pari dei beni di consumo del sistema capitalista, che, oltre ad aver distrutto popoli, culture, natura e risorse, sta distruggendo ormai, con le sue crisi progressive, anche se stesso. Il ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali ha emesso una sentenza inappellabile: l’egemonia globale è impossibile.
Stati – Civiltà: il ritorno dell’idea dell’Impero
L’avvento del mondo multipolare prefigura la resurrezione della storia sulle ceneri di un mondo unipolare a guida USA autoreferente, configuratosi ideologicamente come “fine della storia”, a cui sarebbe subentrato un libero mercato globale ispirato ai vecchi dogmi ideologici liberali “fuori della storia”.
Gli eventi succedutisi nel MENA negli ultimi decenni sono esplicativi di una nuova fase storica che comporterà una profonda ridefinizione dell’ordine geopolitico mondiale. La sconfitta dell’Occidente in Siria e Iraq, oltre alla fuga degli USA dall’Afghanistan, hanno sancito la fine della strategia del caos, messa in atto con le primavere arabe, rivoluzioni colorate e con esse, la fine dell’espansionismo globale americano. La sconfitta in Siria potrebbe assurgere a crocevia della storia contemporanea, quale “Stalingrado” degli USA e dell’intero Occidente.
Dalle guerre di liberazione mediorientali è emerso l’Asse della Resistenza, in cui convergono etnie, culture, religioni diverse, ma unificate da interessi e strategie comuni.
E’ in corso una Guerra Grande che in Medio Oriente si configura come una guerra anticoloniale, poiché Israele sussiste quale epicentro dell’egemonia coloniale occidentale nell’area. La fine del colonialismo è sancita inoltre dal declino degli stati mediorientali, che sono stati creati sulla base delle spartizioni coloniali del secolo scorso. Non scompariranno gli stati, ma assumeranno una configurazione del tutto diversa. Sono emerse nuove patrie transnazionali fondate su valori spirituali, culturali, identitari, religiosi, che prescindono dai paradigmi etnico – linguistici dello stato nazionale di matrice occidentale. Dalla comune lotta contro l’Occidente egemone sono sorte comunità non statuali che rivendicano dignità, indipendenza, riconoscimento. Dalla lotta per la libertà e l’indipendenza scaturiscono i valori comunitari fondativi delle patrie e le guerre di liberazione generano una forza propulsiva determinante per l’emancipazione e lo sviluppo dei popoli, data l’esigenza vitale di contrastare una potenza dominante più forte, sia dal punto di vista economico, militare, politico.
Le singole patrie potranno ottenere riconoscimento nel contesto di organismi sovranazionali più vasti. Il mondo multipolare avrà per protagonisti gli Stati – Civiltà insediati in vaste aree continentali costituite dai popoli più diversi, ma unificati da valori identitari etico – politici comuni.
Il Medio Oriente si configura come un laboratorio geopolitico in cui sta venendo alla luce un nuovo mondo multipolare, già in gestazione con l’istituzione del raggruppamento dei BRICS. Un modello geopolitico paradigmatico replicabile nei contesti più diversi. Un mondo costituito da entità sovranazionali: una riviviscenza in versione moderna degli antichi imperi. Ma l’idea dell’Europa non ha la sua origine nella concezione dell’Impero universale tramandatasi nei secoli e comune a tutte le civiltà che si sono succedute?