Gli Stati Uniti hanno dimostrato di non essere più in grado di gestire contemporaneamente più crisi in regioni diverse e non avranno alcuna remora ad abbandonare al proprio destino un alleato se i loro interessi li spingessero a concentrare le loro forze in altre regioni del pianeta. Gli investimenti deliberati dal governo per gli armamenti sono più funzionali alla difesa dei confini orientali della NATO che non alla protezione delle nostre coste e dei nostri mari. Nasce il sospetto che questa decisione derivi da un’imposizione dei vertici dell’Alleanza Atlantica. Il disimpegno americano potrebbe costituire una opportunità per l’Italia per acquisire un ruolo autonomo nel Medioceano.
Le numerose crisi regionali che sfociano sempre più spesso in guerre vere e proprie, stanno cambiando in modo rapido e profondo gli equilibri internazionali. La leadership americana, durata oltre settantacinque anni, è messa oggi in discussione dal logoramento della sua deterrenza militare e da una profonda crisi del senso di “missione”, che gli americani non sentono più come prioritaria e che nasce da una sopravvenuta debolezza interna. La percezione di declino della superpotenza spinge attori più e meno grandi come Cina, Russia, Iran, Turchia e vari movimenti armati a moltiplicare azioni di ribellione all’ordine americano-centrico. In questo tumulto, l’Italia può e deve cercare di emanciparsi dal giogo statunitense sfruttando la sua collocazione geografica, di importanza geopolitica straordinaria, al centro del Mediterraneo. E’ giunto il tempo di studiare nuove strategie che decideranno del nostro futuro, di quello dell’Europa e del rapporto con gli Stati Uniti.
Le elezioni americane del novembre 2024 potrebbero rappresentare uno spartiacque, o magari soltanto un’accelerazione, di quello che potrebbe succedere nei prossimi anni. Nel caso di una rielezione di Trump, la politica estera americana potrebbe cambiare decisamente rotta. A differenza di tutti gli altri presidenti, nel mandato precedente, si era distinto per le sue posizioni isolazioniste battendo spesso sul tasto dell’interesse nazionale degli Stati Uniti da porre sempre al di sopra degli impegni multilaterali e delle alleanze storiche e criticando costantemente gli organismi internazionali quali Nazioni Unite e NATO. Il nodo del “burden sharing“, ovvero la condivisione degli oneri all’interno della NATO, rappresenta uno dei suoi cavalli di battaglia. Il finanziamento insufficiente di molti membri dell’alleanza ha spinto Trump ad affermare più volte che non esiterebbe a “incoraggiare” la Russia a “fare quel diavolo che vuole” nei confronti di questi paesi e poche settimane fa, durante un comizio, ha rivelato di aver comunicato nel 2018 al “presidente di uno dei grandi paesi” della Nato che non avrebbe difeso un membro dell’alleanza che non spende almeno il 2% del PIL nella Difesa, qualora fosse attaccato dalla Russia: “Non avete pagato, siete inadempienti”.
Queste affermazioni, fanno riferimento agli impegni assunti dai paesi membri della NATO al vertice del 2014 in Galles, durante il quale si era concordato che gli stati aderenti avrebbero aumentato le loro spese per la difesa fino al raggiungimento del 2% del PIL. Il Patto venne poi rinnovato a Varsavia nel 2016 ma ancora nel 2023, solo undici dei trentuno paesi membri dell’Alleanza hanno raggiunto questo obiettivo, mettendo in luce le evidenti disparità economiche tra gli alleati. Mentre alcuni paesi come Polonia, Grecia e Regno Unito sono in linea con l’obiettivo del 2%, la maggior parte deve ancora fare progressi significativi per raggiungere questo traguardo. Tra coloro che spendono meno ci sono il Lussemburgo (0,72%), il Belgio (1,13%) e la Spagna (1,26%). Al di sotto del 2% ci sono anche la Turchia, la Slovenia, il Canada, l’Italia, il Portogallo, la Repubblica Ceca, la Germania, la Danimarca, la Norvegia, i Paesi Bassi, l’Albania, la Croazia, la Bulgaria, la Macedonia del Nord, il Montenegro e la Francia che si avvicina appena, con l’1,9%. Anche la Finlandia, un nuovo membro della NATO, si trova appena al di sotto del 2%, ma si è impegnata a incrementare la spesa fino al 2,3% del PIL. Il dossier del “burden sharing” tornerà al centro dell’attenzione durante i prossimi vertici della NATO, con il rischio di aumentare le tensioni all’interno dell’alleanza e mettere ulteriormente in discussione la sua coesione e solidità oltre a sollevare dubbi e interrogativi sul futuro della sicurezza euro-atlantica.
Per quanto riguarda l’Italia, la spesa militare messa a bilancio nel 2023, è pari all’1,46% del PIL, più di mezzo punto al di sotto dell’obiettivo del 2%. Sebbene il governo abbia annunciato piani per aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni, l’obiettivo del 2% potrebbe essere raggiunto non prima del 2028. L’ultimo Documento Programmatico Pluriennale (DPP), del novembre 2023, torna ad indicare come il compito primario delle Forze armate sia la difesa della Nazione. La guerra in Ucraina ha dimostrato a tutti Paesi europei come la sicurezza dei propri confini non sia affatto da considerarsi scontata e l’Italia non può più permettersi di impegnare il proprio strumento militare nelle modalità che ha conosciuto negli ultimi trent’anni, impiegato in buona parte nella conduzione di operazioni e missioni per il mantenimento della pace e della stabilità internazionale. Difesa del territorio nazionale e deterrenza nei confronti di potenziali nemici devono quindi tornare ad essere i compiti precipui delle Forze Armate italiane. Alla luce di queste nuove linee strategiche, si è deciso di stanziare più del 90% dei fondi predisposti per l’avvio di tredici nuovi programmi per la modernizzazione della componente corazzata dell’Esercito, con l’acquisto di almeno 125 carri armati MBT Leopard 2 A8 di ultima generazione, del progetto “Armored Infrantry Combat System” (AICS) per l’acquisizione di un sistema da combattimento per la fanteria corazzata dell’Esercito ed una serie di piattaforme di supporto (1.646 milioni) oltre l’assegnazione delle risorse per l’acquisto dei lanciarazzi multipli d’artiglieria ruotati M142 HIMARS a favore dell’Esercito, un sistema d’arma ampiamente utilizzato dalle forze ucraine nel conflitto con la Russia. Il bilancio della difesa per il triennio è pari a 27,748 milioni di euro nel 2023, 27.278 milioni nel 2024 e 27,485 milioni nel 2025, cifre che rappresentano rispettivamente il 1,38%, 1,30% e 1,26% del PIL nazionale. Nel 2022, l’Italia ha speso 26,9 miliardi di euro per la Difesa, per cui l’aumento è di circa 736 milioni di euro. Tra le spese, però va anche considerato quel buco nero rappresentato dagli aiuti all’Ucraina; il Governo Meloni, seguendo l’esempio di Draghi ed unico tra i paesi occidentali, non fornisce alcuna informazione sulla quantità e sulla tipologia di armamenti che l’Italia ha fornito e continua a fornire a Kiev. Oltre agli ingenti costi di questi aiuti, i nostri arsenali difensivi si stanno svuotando velocemente con la conseguenza che siamo sempre più vulnerabili.
La Difesa investe dunque pesantemente sulla componente corazzata malgrado la principale area di interesse strategico dell’Italia sia rappresentata da quella che viene comunemente definita “Mediterraneo Allargato”. La domanda che occorre porsi è quanto gli investimenti in questo tipo di armamenti giovino all’Italia, se non vogliamo credere alla favola propagandata dalla stampa di regime che il nostro paese, come tutta l’Europa del resto, si trovi a rischio di invasione da parte della Russia. Considerate le esigenze delle Forze Armate italiane in questo fondamentale quadrante strategico, puntare principalmente su mezzi inutilizzabili nell’area mediterranea rappresenta quindi una scelta incomprensibile per non dire scellerata. Visto che gli investimenti in questo tipo di armamenti sono più funzionali alla difesa dei confini orientali della NATO che non alla protezione delle nostre coste e dei nostri mari, nasce il sospetto che questa decisione derivi da un’imposizione dei vertici dell’Alleanza Atlantica e questo sospetto viene confermato dal Sottosegretario Isabella Rauti la quale, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, ha candidamente ammesso che “c’è la necessità di rispettare gli impegni Nato” che impongono di dotare l’esercito di una “componente pesante che superi i 250 carri armati”. Il Governo avrebbe dovuto almeno mediare tra impegno ad est ed impegno a sud. Una maggiore attenzione ai pericoli che possano provenire dal mare, per un paese che ha circa 8.300 km di coste, riteniamo che sia più che doverosa. Un primo passo avrebbe dovuto riguardare l’ammodernamento e l’implementazione dei mezzi aero-navali che dovrebbero garantire la sicurezza dei nostri confini e la libertà delle nostre rotte. Non dimentichiamo che gli approvvigionamenti del nostro paese dipendono per oltre il 90% dal mare e garantire la libera navigazione è vitale per la nostra sopravvivenza. Altro elemento da valutare: il potenziamento nel numero e nell’armamento dei reparti con propensione anfibia. Nel contesto sempre più complesso del panorama geopolitico mondiale, le Forze Anfibie si rivelano cruciali per la capacità di un paese di garantire la sicurezza nazionale e proteggere i propri interessi strategici. Costituite da unità specializzate nella capacità di proiettare il potere militare attraverso operazioni marittime/terrestri, svolgono un ruolo fondamentale nelle operazioni di sicurezza marittima. Il Reggimento Lagunari “Serenissima” e la Brigata di Marina “S. Marco” rappresentano dei fiori all’occhiello delle nostre FF.AA. e riteniamo sarebbe opportuno metterli nelle condizioni di operare per il meglio attraverso un addestramento continuo e variegato che li prepari ad intervenire in situazioni e condizioni più disparate così come la Brigata Paracadutisti “Folgore”, unità di pronto impiego, anch’essa adattissima alla difesa dei nostri confini terracquei alla quale, per ragioni di bilancio, viene addirittura limitato il numero dei lanci.
Proprio la componente addestrativa rappresenta la nota dolente. Infatti, mentre cresce la spesa per l’investimento, quella per l’esercizio rimane limitata. Lo sbilanciamento delle spese oggi è proprio verso l’investimento, più che verso il personale ma acquistare mezzi senza poi avere la possibilità di usarli e mantenerli operativi attraverso l’addestramento rischia di risultare uno spreco di risorse. Tutto questo, poi, senza tenere conto dell’età media dei militari in servizio che oggi supera i 45 anni, mentre solo un terzo ha meno di trent’anni. Purtroppo, al momento, lo sforzo principale dell’Esercito si riduce, in realtà all’operazione “Strade Sicure”. Si tratta di un’operazione che, come dimostrano decenni di studi sulla materia in diversi continenti, nuoce alle capacità operative delle unità e di questo, si lamentano molto anche i vertici militari italiani. Se le Forze Armate devono riacquisire le capacità di combattere conflitti convenzionali, è necessario ridurre il loro impiego nei compiti di polizia interna. Il piantonamento di siti cosiddetti a rischio deprime il personale – si registra un numero insolitamente elevato di suicidi tra i militari impiegati – impedendone l’addestramento che, per una guerra moderna, con armamenti sempre più sofisticati, deve essere costante ed approfondito. Si riduce, peraltro, anche la capacità di reazione di fronte ad un pericolo improvviso. Frazionare, ad esempio, nuclei di paracadutisti davanti alle varie ambasciate, rende impossibile il pronto impiego dei reparti di una specialità che, per la sua brevissima capacità di reazione, dovrebbe essere la prima ad essere mobilitata in caso di pericolo. Benché l’Italia dichiari di spendere circa l’1,5% del proprio PIL in spese militari, la cifra effettivamente dedicata a garantire l’efficacia del nostro strumento militare è probabilmente inferiore, collocando il nostro Paese tra gli ultimi posti nella lista dei contributori NATO. L’Italia è il Paese che spende meno in rapporto al personale in servizio, troppo poco per delle Forze armate troppo numerose.
Si diceva che la propensione e l’interesse strategico del nostro paese dovrebbe essere il Mar Mediterraneo che negli ultimi tempi continua ad essere sempre più affollato. Oltre alle flotte statunitensi, britanniche, francesi, che incrociano da sempre nelle acque di quello che in geopolitica viene denominato “Medioceano”, di recente anche la Russia è tornata a solcarle in forze con le sue navi ed alla luce del suo rinnovato impegno in quest’area, nel prossimo futuro, oltre alla base navale di Tartus, in Siria, potrebbe aggiungersene un’altra a Tobruk, in Cirenaica. Mosca, infatti, starebbe cercando di ottenere l’accesso per le sue navi da guerra nei porti della Libia orientale. controllati dal generale Khalifa Haftar. A tale proposito va sottolineato che, malgrado si tenda a dimenticarlo, il nostro paese, per essersi schierato così apertamente a fianco dell’Ucraina ed aver rotto i rapporti con Mosca, è considerato dalla Russia “paese nemico” e l’incrociare di una flotta potenzialmente ostile a ridosso delle nostre acque territoriali rappresenta un pericolo che non va sottovalutato.
Dall’altra parte, anche la Turchia è nuovamente al centro della scena internazionale per il ruolo attivo in Libia a sostegno del Governo di Tripoli (GNA). Ankara ha firmato con il leader libico Serraj un accordo che definisce i termini di una cooperazione marittima utile a garantire la partecipazione nell’utilizzo della risorse a largo del Mediterraneo, il che vuol dire in diretta concorrenza con il nostro paese. Erdogan ha già dimostrato di non avere troppi scrupoli ad usare le armi in caso di bisogno e la presenza turca a poche centinaia di miglia dalle nostre coste determinata a sfruttare quanto possa offrire il Mar Mediterraneo non deve lasciarci tranquilli. E’ deprimente constatare come la Libia sia contesa tra Russia e Turchia mentre l’Italia si è fatta estromessa dopo oltre un secolo di presenza in quella che un tempo era denominata la “Quarta Sponda” italiana.
Tutta l’Africa, a cominciare dal Sahel, è in subbuglio, una polveriera pronta ad esplodere con conseguenze che si ripercuoterebbero sui paesi rivieraschi che vedrebbero posta a rischio la propria stabilità e con milioni di profughi, o presunti tali, a premere per raggiungere l’Italia.
Gli Stati Uniti hanno dimostrato di non essere più in grado di gestire contemporaneamente più crisi in regioni diverse e non è da escludere che, indipendentemente da chi sarà il prossimo presidente, in un futuro più o meno lontano, non avranno alcuna remora ad abbandonare al proprio destino un alleato se i loro interessi li spingessero a concentrare le loro forze in altre regioni del pianeta. Appare molto probabile che nei prossimi anni la loro attenzione sarà rivolta sempre più al Pacifico, al Mar della Cina, a Taiwan; i loro principali interessi strategici sono in quell’area e potrebbero decidere di curarsi poco o punto del Mediterraneo. L’Italia deve essere pronta a fronteggiare, crisi senza più contare sull’ombrello protettivo USA e, forse, senza neanche l’aiuto dell’Europa.
Il disimpegno americano potrebbe costituire una opportunità per l’Italia per acquisire un ruolo autonomo nel Medioceano e salvaguardare quindi i nostri interessi nazionali. La nostra posizione geografica non deve rappresentare un punto di debolezza ma di forza e va sfruttato. Non si chiede ai nostri governi di essere aggressivi ma soltanto di non essere remissivi. La potenza militare costituisce da sempre un deterrente fondamentale per tutelare gli interessi nazionali e, paradossalmente, per il mantenimento della pace. Una nazione forte militarmente sarà sempre rispettata e temuta. La locuzione latina “Si vis pacem para bellum” è vecchia di oltre duemila anni ma si dimostra ancora attualissima.