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Soppressione del sogno

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La gioventù, come categoria astratta della vita, rimane il periodo dei sogni, degli slanci verso l’impossibile, della voglia di rompere con le vecchie consuetudini. I giovani della nostra epoca, nei paesi dell’occidente nascono, invece, già vecchi,  niente slanci sovversivi, niente orizzonti da raggiungere ed oltrepassare, nessuna terra da difendere.  La coscienza di classe, quando ritroverà le sue motivazioni e le armi teoriche per tornare a combattere?

 

Tra il 1959 e il 1968, i meno giovani di noi sicuramente ricorderanno, si era diffuso fra i giovani il fenomeno della musica yéyé, una moda musicale francese, che aveva avuto un largo seguito popolare tra gli adolescenti, fenomeno poi diventato identitario anche nel vestire e nel parlare. Il movimento, che sarebbe stato anche base per il successivo sessantotto, era in linea con i cambiamenti del modo di vivere imposti allora dal capitalismo maturo occidentale.

Un capitalismo definito da qualche sociologo prezzolato “società affluente”, termine radical chic per evidenziare retoricamente il miglioramento delle condizioni di vita e la maggiore possibilità di accedere al benessere da parte di fasce crescenti di popolazione. Ora, indipendentemente dall’esistenza effettiva o meno di una società più o meno “opulenta” negli anni sessanta del secolo scorso, resta dimostrato storicamente che nel ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, la ripresa temporanea del ciclo economico produsse, in ogni caso, dei notevoli cambiamenti nei costumi di massa.

La produzione in serie di merci destinate ad un vasto target di mercato, collegata al miglioramento del tenore di vita di una fascia limitata di proletariato, incrementava la platea dei clienti, liberi di frequentare adesso punti vendita diversificati per esercitare la propria presunta libertà di consumatori. Erano i semplici effetti (la libertà del consumatore e la relativa libertà dei costumi) della tendenza di base del capitale a produrre e distribuire senza limiti le merci incorporatrici di plus-lavoro/plusvalore.

Il capitale mondiale era lanciato verso la sua fase imperialista made in Usa, rigenerato dal sangue e dalla distruzione appena operata ed aveva tutto l’interesse a creare nel nuovo mercato giovanile una apparenza di spensieratezza e di anticonformismo, sentimenti ben presto trasformati dal sistema in moda economicamente interessante. Questo perché al di là dell’analisi politica, la gioventù, come categoria astratta della vita, rimane il periodo dei sogni, degli slanci verso l’impossibile, della voglia di rompere con le vecchie consuetudini, cosicché la temporanea ripresa economica del dopoguerra aveva facilmente favorito questa spinta giovanile al cambiamento, consentendo delle modifiche ai precedenti stili di vita, basati soprattutto sulla percezione di una economia della povertà e quindi sulle conseguenti (ed oramai negative) ristrettezze dei consumi. In termini dialettici, quei fenomeni sociali erano sia l’espressione di una libertà indotta dalla ripresa economica, sia il termometro di una insoddisfazione di base verso i rapporti sociali capitalistici.

I giovani del dopoguerra erano ancora giovani interiormente, seppur già lambiti dalla marea della panacea consumistica. Solo i giovani, infatti, hanno idee di progressione, non si pongono limiti, avendo abolito il concetto di morte. I giovani, seppur non singolarmente, pensano in termini di potenza, di conquista, di sovvertimento. I giovani della nostra epoca, nei paesi dell’occidente nascono, invece, già vecchi, senza prospettive se non quelle di mantenere il benessere che i genitori gli hanno consegnato o che ancora gli forniscono. Niente slanci sovversivi, niente orizzonti da raggiungere ed oltrepassare, nessuna terra da difendere se non quella del giardino dietro casa.

Quest’ultimo elemento di defezione dalla passione non va sottovalutato, anche per comprendere appieno la doppia dinamica dell’attuale fenomeno giovanile, che nella nostra epoca potremmo definire dei né-né. I ragazzi, cioè, che oggi non cercano né lavoro e neppure studiano, e sono insofferenti allo stato delle cose, ma senza più elementi sostanziali di indirizzo politico. La marginalità cresciuta nel mondo, a partire dall’occidente, è frutto della crescita di una sovrappopolazione inoccupata, alla quale corrisponde un aumento enorme della miseria (in termini relativi e assoluti).

L’assenza di possibilità concrete di lavoro, e la conseguente inutilità dello studio nel fornire le chiavi d’accesso ad una occupazione, costituiscono oggi le motivazioni di una fetta crescente di giovani per non cercare un lavoro e per non continuare gli studi. Condizione che produce sacche di degrado in cui facilmente si inserisce la criminalità organizzata.

Il fatto è che dopo il superamento dell’età dell’obbligo scolastico, un giovane su cinque si lascia vivere, viene mantenuto in vita dalla famiglia, smette di studiare e neppure ritiene realistica la ricerca di un occupazione. In effetti il sistema economico non ha bisogno di altra forza lavoro da spremere, se non la manovalanza immigrata, ultra sfruttata e senza diritti, perché il progresso tecnico e il macchinario di nuova generazione tendono a ridurre l’impiego di lavoro umano nei processi produttivi, nei servizi commerciali e amministrativi, in fondo in qualsiasi attività economica.

Il proletariato giovanile è, in gran parte, forza lavoro eccedente, sovrappopolazione di riserva, parcheggiata nelle aule delle scuole medie superiori, nelle università, oppure impiegata saltuariamente in stage, alternanza scuola lavoro, occupazioni di fine settimana nei bar e nelle pizzerie. Nell’ultimo anno l’occupazione, da statistiche, è aumentata, ma se andiamo ad analizzare la qualità di quel lavoro scopriremo facilmente sottovalori salariali ed instabilità, ovvero ricatto ed imposizione. In realtà l’attuale grado di sviluppo delle forze produttive dell’economia potrebbe benissimo consentire alla specie umana di vivere in condizioni molto migliori, se solo lo spietato parassitismo delle classi egemoni non possedesse ancora il potere di dominare la realtà. Molto spesso gli argomenti di fondo di chi smette di sperare e di credere per sfinimento nella società capitalistica, sono taciuti dalle stesse inchieste svolte sul fenomeno. La crisi ulteriore del sistema globale, le guerre sempre più diffuse, il vuoto procurato dall’epidemia di Coronavirus hanno approfondito le cause della divergenza sociale, ratificando clamorosamente l’allontanamento delle piattaforme dei “sommersi e dei salvati”.

Ma sino a dove potrà spingersi la furia nichilista dell’economia mondialista, prima che le sue vittime trovino la forza per tornare a sognare? Prima che la coscienza di classe ritrovi le sue motivazioni e le armi teoriche per tornare a combattere?

Per quanto ci riguarda, noi, pazientemente, siamo ancora qui!

 

 

 

 

 

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