Nella musica rivoluzione e tradizione devono confluire su quell’unico fine, di “colorare, ingentilire, rinvigorire e rinfrescare il ritmo duro, buio, trito e convulso della vita quotidiana”.
Una volta scomposta la bellezza olimpica della realtà e penetrati nell’universo utopico delle forme sconosciute, ciò che si attua è il completo sfaldamento del solido nell’etereo, così che, per così dire, alla consistenza della roccia tiene dietro la liquida ubiquità di una bolla d’aria sostenuta dal vuoto. Una proiezione sensitiva nel multiforme allucinogeno non saprebbe produrre nulla di più vago. Che l’affaccio sulle obliquità dell’inconsistente abbia un suo alto grado di suggestività, non lo si nega. Qualunque vertigine attrae di per sé, come in uno spenzolarsi sul ciglio. La tentazione del precipizio è antica quanto l’istinto di conservazione. Essa fa anzi parte dell’infanzia antropologica. Per questo la disintegrazione conosce sempre una sua fase di successo nel corso dei tempi umani.
Scomporre, disgregare e disintegrare sono funzioni ataviche, che attengono all’età dell’infanzia, quando la mente immatura ama sfuggire la logica e costruire mondi perfettamente surreali.
La cultura occidentale, una volta perduto il proprio centro a seguito del trauma apocalittico, è penetrata a viva forza nel regno dell’inconsistenza scompositiva, causando la fine dell’estetica come ricerca del bello e imponendo l’aggressività della bruttezza come codice universale. Il trauma apocalittico, vissuto come smarrimento dell’ordine tradizionale ed emancipazione dalle leggi di natura, ha condotto all’erezione di un mondo di intellettualizzazione abitato da esperimento, tentativo, oltrepassamento: la nevrastenia del nuovo e diverso che conduce alla nullificazione del soggetto annullante come dell’oggetto annullato. L’arte cessa di esistere nel momento in cui la si cerca dalla parte sbagliata. Questo fenomeno lo si verifica molto bene nel caso della musica contemporanea, in cui il tracollo del senso creativo è facilmente verificabile, come fossimo in un’area archeologica a cielo aperto.
La musica tonale soppiantata dal suono abbandonato alla casualità “random” della campionatura digitale è l’esatta fotografia dell’impossibilità umana di oltrepassare l’estetica con apprezzabili risultati. L’astrattismo dei suoni ha condotto più volte al di là della sperimentazione. Al tempo del futurismo, il rumore assemblato in accozzi industrialisti aveva una funzione ideologica creativa. Era il canto macchinale del superuomo d’acciaio, e poteva ancora sperare di essere compreso. Cent’anni dopo, e dopo decenni di sperimentazioni accanitamente perseguite con la volontà di disintegrare la capacità sonora, si è ottenuto il risultato di liquidare la ricerca e la creatività musicale in un campo di rovine uditive.
Una volta esaurito il ciclo della musica cosiddetta “classica”, e una volta verificata la fine della volontà occidentale di comporre suoni in tonalità armonica leggibile dal senso uditivo, si è aperto il vasto campo della dissonanza a ruota libera, come se si fosse rotto un sistema di frenata, e il macchinario si desse a correre a precipizio verso l’inevitabile. A questo punto, le interpolazioni elettroniche di un Edgar Varése, con le sue impuntature disarmoniche, oppure gli astrattismi sonori di un Boris Blacher, coi suoi vocalizzi fatti di parole e sillabe prive di significato, per altro giunti con un quarantennio di ritardo sulle “parole in libertà” marinettiane, ci fanno la figura di reperti archeologici muti, inespressivi. Che Frank Zappa, i primi Pink Floyd, Klaus Schultze o i Tangerine Dream abbiano attinto a queste matrici lo ammettiamo senz’altro: gli informi “vortici sonori” della sperimentazione – orchestrale o elettronica che fosse – hanno avuto la loro influenza su fenomeni più larghi di “popular music”. Ma non è questo il punto.
Il punto consiste nel fatto che oggi non esiste neppure più la musica atonale, ristretta in cerchie esoteriche di nicchia con decrescente capacità di presa emotiva. Il rumore in libera scomposizione lo si può agevolmente udire prodotto “live” in qualunque tangenziale o centro commerciale, e non occorrerà recarsi in qualche auditorium per apprezzarne la riproduzione sotto forma di artificiale creazione individuale. Lo stridore fa parte del quotidiano occidentale, non è più da un pezzo una forma d’arte. Quello che preoccupa non è la sopravvivenza di residuati di musica atonale rumoristica nei programmi di sala dei nostri auditorium. La fine politica e sociale della musica come contenitore di significati artistici e culturali è cosa già archiviata.
Quello che preoccupa, al di là dei vizi privati delle minoranze intellettualizzate in senso globalista, è la produzione in massa di materiale sonoro di infima qualità, affidato pressoché totalmente all’accavallarsi di “rap” e “trap”, i suoni della dissolvenza, in cui si spaccia per trasgressione ciò che è banale patologia. L’estetica del brutto è al potere. I suoni brutti a sentirsi ci circondano da ogni lato. Ottenendo, per questa via, e con ossessiva ripetitività, la costante contaminazione verso il basso. La sempre maggiore rozzezza dei suoni scarnificati diventa il fine ricercato, unendo il lavoro sporco della vecchia “drum-machine” (una volta al servizio di onesti pezzi da classifica borghese) con il tipico parlato “hip-hop” della segregazione analfabetica, pre-verbale.
La logica della musica da ghetto, condita con dosi oltranziste di distorsione dei toni bassi, di velocizzazione della ritmica e di abolizione di ogni relitto armonico, sovrintende alla ricetta del nuovo codice della finta trasgressione. L’utilizzo dei “software” di “auto-tune”, che provvedono alla manipolazione dell’audio, va poi nel senso dell’ulteriore distorsione fonica, procedendo al finale massacro sonoro: la voce umana, che è il più antico strumento musicale, non poteva sfuggire alla febbre distruttiva programmata dai tecnocrati subculturali. Il gergo carcerario dello spacciatore, lo “slang” del sottosviluppo e il sovradosaggio della violenza metropolitana, tutti prodotti direttamente importati dal grande bacino delle periferie americane, costituiscono i supporti alle ultime derive del genere “hip-hop”, che ha fatto irruzione negli immaginari giovanili occidentali con l’abituale invasività delle scelte di mercato operate dalle multinazionali della disinformazione e della fraudolenta “controcultura”: quella, cioè, tranquillamente gestita dal sistema.
In questo modo le masse in specie giovanili dell’Occidente vengono provviste di modelli di contrapposizione perfettamente allineati ai disegni del grande capitale sovversivo. E’ infatti la grande usura capitalista che ormai da decenni guida il progetto di finale annientamento soprattutto della cultura e dell’identità bianca europea. Questo micidiale “mixer” di sottosviluppo culturale di massa imposto con i mezzi totalitari dell’imposizione capitalistica sui mercati mondiali, è il più fenomenale strumento di corruzione trans-generazionale finora mai utilizzato dai progettisti della disintegrazione sociale.
Il mondo della subcultura globale costruisce proprio nell’ambito musicale la più colossale delle frodi ideologiche. Poiché agisce con esiti devastanti sul fragile immaginario dei giovani e dei giovanissimi, i quali si offrono come vittime sacrificali nei confronti della voglia matta di annientamento che abita la psiche malata dei lobbisti globali. E dire che lo strumento del suono antiborghese fatto rumore nobile di suoni sovrastanti nacque come arma oppositiva, nei confronti del tramonto dell’Occidente. E ci fu chi su quest’estetica radicale innestò programmi di imperialismo culturale rifondativo, annunziante nuovi millenni di una nuova Roma, tutta forza e ordine rivoluzionario. Il problema consiste nel mettersi d’accordo su cosa dev’essere la rivoluzione. Se segno aristocratico d’avanguardia che nella tempesta rinnova la tradizione, rifacendola vergine come il primo giorno; oppure, se semplicemente vuol dire inabissarsi nel fango di una morte oscena.
Un segno di rinnovamento che oltrepassi la distruzione per raggiungere nuovi approdi di civiltà non può trascurare la tradizione. La caduta nel rigagnolo fangoso da cui emergono le convulsioni plebee dell’odierno “trapper” significa immedesimazione nella bruttezza come massimo dei crimini. L’assassinio dei suoni per il trionfo dell’emissione volgare di rumore privo di senso deve essere l’ultima nefandezza della società aperta che ci sta portando alla dissoluzione. La musica è uno dei mezzi attraverso i quali l’uomo europeo può tornare alla sorgente del suo essere, dopo aver attraversato tutte le bassure.
Poiché la musica, come ogni arte, è uno sguardo sull’alto e dall’alto, e si differenzia sostanzialmente dallo strisciare inespressivo nei meandri della sottocultura da trivio. Come scrisse Marinetti, che pure si intendeva di rumore fustigante e di suono oltraggioso, la musica è essenzialmente “linguaggio rituale”, “esaltatrice dell’atto di vita”, col fine di produrre un “ordine lirico nel senso vigoroso della parola”. “La musica regnerà sul mondo”, proclamava il futurismo. E intendeva dire che rivoluzione e tradizione dovevano confluire su quell’unico fine, tenendo fermo sul fatto che la musica moderna è un fenomeno di fermento individuale, sociale e anche politico, che ha il compito di “colorare, ingentilire, rinvigorire e rinfrescare il ritmo duro, buio, trito e convulso della vita quotidiana”. Queste parole battono sul lato opposto della cosiddetta musica contemporanea, che rende ignobile e inascoltabile il suono, equiparandolo alla bruttezza della vita nella società del capitale, che è appunto dura, buia e trita.
Luca Leonello Rimbotti
Shelton Vannice
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