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RIBELLI D’OGGI

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Essere-contro vuol dire essenzialmente passaggio all’azione, e allora rivolta, conflitto, insurrezione. Questa lotta, per uscire dai dialoghi da salotto o dalle pagine scritte, abbisogna di cuori in tumulto e di coscienze febbricitanti di indignazione e rivolta.

Ribelli è una parola grossa. Diciamo che, qua e là, osservando le cose con la lente d’ingrandimento, si possono anche individuare increspature, minuscole ruvidezze sul volto liscio del Niente che ci domina. Ma di ribelli e ribellioni, neppure l’ombra, diciamo la verità. Eppure, i connotati per afferrare la clava di un pensiero antagonista e di un’azione di contrasto ci sarebbero in parecchie idee circolanti, tentativi di distinguere, di sbalzare qualche verità dal fondale di uniforme piattezza che ci viene imposto dall’alto. Idee in controtendenza, nei confronti del rigido pensiero unico fondato sulla demolizione dell’intelligenza e sulla falsificazione della realtà, vene sarebbero quanto basta, per passare dall’opposizione potenziale, tutta rinchiusa entro conversari cifrati, all’opposizione reale, quella che imbraccia l’arma ideologico-culturale e la spiana davanti al potere del partito unico universale.

In questo sottobosco infido, dove vigoreggia una flora ingannevole, che sembra liberazione di istinti primaverili e dove invece cova il vizio mentale del lungo inverno antifascista, bisogna guardarsi dalle parole amiche, spese sovente a bella posta per catturare attenzioni e per confondere le idee degli ultimi ingenui.

Il caos delle parole e delle idee è infatti al suo culmine. Dentro il frullatore accade di tutto. In pieno annaspamento, l’intellettualità al potere secerne frammenti di contrasto, che dovrebbero servire a fare chiarezza circa la libertà di opinione, oppure circa la varietà delle culture in circolazione. E che invece ci confermano che il potere delle idee non ammette opposizioni, tanto che si appropria esso stesso anche dei termini oppositivi, delle negazioni, delle minime dissonanze. È per questo che si odono ancora termini antichi, rielaborati dallo spleen dei semicolti a grande tiratura.

Il libro di dieci anni fa “La politica del ribelle” di Michel Onfray è un esempio lampante. Un’opera di fondazione. Ha fatto scuola tra i benpensanti da talk-show. Il suo “modello educativo” è tipico dell’epoca in cui viviamo. In cui il progressismo, che si trovi occasionalmente al potere o all’opposizione, comanda sempre lui. Questo “trattato di resistenza e insubordinazione” è un vero manifesto di adeguamento ai diktat radicali del potere cosmopolita. Vi si parla persino di una “mistica di sinistra” che imporrebbe principi verticali, oltre a quelli orizzontali sociali, par di capire. La pianura e la vetta sono ugualmente di sinistra, di questa sinistra attuale che è nell’immanenza del mondo. Poiché il famoso ribellismo di Onfray, il suo spingersi oltre le frontiere dell’insubordinazione e verso la suprema delle “resistenze”, parte ancora una volta – ed è stanca ripetizione – dal recupero del maggio sessantottino. Viene spesa ancora e sempre la mitica moneta di un evento deformante come il ’68, i cui esponenti – come ognuno sa – appena passata la moda e l’età dei giochi, balzarono in un baleno dalla controcultura beat alla gestione del potere duro delle oligarchie dominanti. L’intera invecchiata classe dirigente mondialista di oggi vanta origini sessantottine, quella è la loro ninnananna ideologica, la loro giovinezza spesa bene sotto lo sguardo paterno del capitalismo di rapina che li allevò, li fece divertire e infine li inquadrò rigidamente nel sistema.

A volte Onfray è un paladino dell’inganno consapevole. Diffidare da chi ti seduce con parole che odia! Ci vorrebbe un Nietzsche per mettere a posto di questi impostori. Onfray, cui non di rado piace imitare il Solitario, è contro “l’ascesi”, tipica, dice lui, della destra, e pertanto da rigettare: dunque non piace il “donarsi”, il sacrificarsi, ciò che è la base psicologica del sociale? Non piace. Si preferisce la “mistica”, così dice Onfray, quella cosa che porta verso un “ateismo che autorizzi l’abbattimento dell’idolo economicistico”. Solo così si produce “il genio collerico della rivoluzione”, che sarebbe la caratteristica prima del mondo progressista.

Questo intreccio di concetti è la nuova cabala. Dire di tutto per non esprimere nulla. Onfray utilizza frasi di questo tenore: “La sinistra formula un ideale per gli esclusi, gli inermi, gli sfruttati, i miserabili, i poveri, i dannati, gli schiavi, i dimenticati da una macchina che produce ricchezze e beni in quantità mostruosa, ripartiti tra pochi a scapito di coloro che essa non dimentica e intende difendere. La collera che la anima assume come oggetto questa diseguale divisione dell’oro”[1].

Collera? Difesa degli esclusi? Di quale sinistra ci parla questo cavallo di razza della finta opposizione? La sinistra, se non andiamo errati, è divenuta per l’appunto l’agente primo di coloro che desiderano la “diseguale divisione dell’oro”. La sinistra è la copertura dei detentori dell’oro. Non ne esiste altra. Onfray narra fiabe antiche che parlano di mondi trapassati, veramente mai esistiti per davvero. La sinistra che si occupa dei poveri è una narrazione di retroguardia fondata sul falso ideologico.

Attorno a queste esibizioni dell’anarchismo di potere viene in mente di collocare i falsi antagonismi alla Chomsky, il gran guru della finzione scenica a tutto vantaggio del potere: anti-globalista, certo, ma solo perché la globalizzazione capitalista non gli pareva così buona come la globalizzazione cosiddetta dal basso, quella che immaginava potesse realizzarsi nella società civile, alla “democratica”, con i celebri movimenti spontanei della base. Le solite utopie, i soliti giacobini che dicono “popolo” ma pensano “oligarchia”, urlano “libertà”, ma intendono “ghigliottina”, amano la lobby, si sentono la setta degli illuminati, vogliono il popolo, forse, ma solo se osservato dalle alte terrazze dei ricchi.

Ed è un peccato, perché proprio Onfray potrebbe davvero essere il nicciano portatore di rivolta tradizionale, la migliore, la più profonda, quella che squassa per riedificare dalle fondamenta. Riuscisse a recidere il cordone che lo alimenta, potrebbe ancora fare la parte del risvegliatore. In fondo, gli argomenti li avrebbe anche. Pensiamo solo al suo elogio del condottiero dionisiaco, al concetto di “energia piegata”, la realtà plasmata dalla volontà di nuove categorie faustiane: non diceva Nietzsche che la potenza è il sentire che una resistenza sta cedendo? Un mondo di titanismi che viene setacciato:

La saggezza tragica consiste nel tenere continuamente presente questa idea, che la propria singolarità si costruisce solo sugli abissi, tra blocchi di miseria scagliati a grande velocità nel nulla. Da qui le probabilità notevoli dello scacco, della conflagrazione e della disintegrazione dei progetti non appena si comincia ad attuarli. Ma all’animo così temprato poco importa conoscere l’esito.[2]

Parole che evocano, che risuonano pesanti. Noi le riconosciamo al rintocco. Qui si è capito il fulcro della contrapposizione. Ma allora la verità, per così dire, la conosci, sai quali sono i termini di una possibile nuova grande morale, una grande politica! E perché non andare fino in fondo?  Se non fosse per quella malattia moralistica di voler salvare chissà quale “sinistra” dalla morte cui già l’hanno consegnata la storia e l’intelligenza intuitiva dei popoli, avremmo nuovi estensori di leggi eversive. I pochi letterati della rivolta crescono attorno a noi troppo timidi, rimangono muti sull’ultima parola, non la pronunciano, finiscono col nascondersi dietro alla solita coperta del “corretto”, non vogliono fare un torto al grande potere mondiale che li controlla. Mancano i “fanatici”. Dove sono i “fanatici”? Nessuna rivolta, nessuna rivoluzione, nessuna religione nasce, lotta e vince senza di loro. Conoscere la vera fede, direbbe qualche antico padre della Chiesa, ma ricoprirla di cascami razionalisti e scettici, è cosa peggiore della miscredenza. Meglio, molto meglio qualche sano “conservatore” riconoscibile a un’occhiata. Qualche residuo spirito “catecontico”, come direbbe Fusaro, che ancora si aggiri nelle strade d’Europa. Che abbia idee buone per trattenere la civiltà nostra sul ciglio dell’abisso, che ritardi di un po’ l’apocalisse. Alcuni esempi li avremmo. Diciamone uno, Roger Scruton.

Con tanto più coraggio dei “sinistresi”, anche in anni recenti questo conservatore molto british – troppo “per bene”, troppo educato – è stato un difensore convinto dei diritti della tradizione, dei valori dell’Europa oscurati dalla perversione dell’Antieuropa, una patria ogni giorno tradita dai contatti ravvicinati fra Stati, governi e grandi investitori. Con tatto era riuscito a mettere il dito nella piaga e a denunciare il male europeo, il male bianco per eccellenza: la oikofobìa, l’odio della nostra civiltà verso se stessa.

Una riedizione del vecchio Selbsthass, l’odio di sé ebraico, di cui parlarono Freud, Weininger, Theodor Lessing. Il disprezzo verso noi stessi è l’operazione quotidiana cui si dedica la sinistra cancerosa che sta finendo di marcire. E che, marcendo, contamina di morte la società europea e mina al suo centro il cervello debole dei contemporanei. Certi tedeschi del Seicento chiamarono questa psicosi dell’anima Frömdgierigkeit, l’avidità per tutto quello che è straniero, estraneo, divergente, ostile, diverso nel senso di inferiore, basso, infimo. Scruton ha speso la parola esatta per dare spiegazione plausibile alla demenza che avanza come un cavaliere dell’apocalisse guidato dagli intellettuali di sinistra: cospirazione. Scruton lo ha detto. Proprio come lo disse Nietzsche: congiura; così disse il Solitario, congiura ordita dai chandala, esseri inferiori odiatori del bello e devoti al brutto. Siamo dinanzi ad una gigantesca, mostruosa cospirazione. Essa trasuda da ogni parte, crea le pestilenze, le guerre, la rovina degli Stati, e semina la miseria, la discordia, la confusione nelle menti. In essa c’è la demonìa di un’apocalisse tecnocratica:

La Costituzione europea non è stata un successo perché non è una costituzione ma una cospirazione da parte di un’élite politica, per imporre agli Europei leggi, regolamenti e procedure che non vogliono e che non derivano dai loro sentimenti di lealtà[3].

Molto semplice. Non occorre dire di più. Ma, per far sentire al potere la volontà di contrapposizione, occorre avere coscienza ferma, radici che non tremano; “le persone hanno bisogno di radici”, certo, come dice Scruton, ma di radici che alimentino una tremenda capacità di decisione. Poiché essere-contro vuol dire essenzialmente passaggio all’azione, e allora rivolta, conflitto, insurrezione, questi diventano i termini della questione. La resistenza passiva – ad esempio quella attuata dai no-vax, chiusi in casa a maledire la dittatura corrotta – non basta più. E non bastano più neppure i rovesciatori di cassonetti, del tipo dei gilet-gialli o dei loro più recenti emuli nelle strade francesi.

Nel 2017, Scruton sottoscrisse con altri intellettuali – per lo più ignoti al grande pubblico – un Appello in difesa dell’Europa, che venne presentato come proposta per il “recupero della civiltà europea” in contrapposizione al “mercato unificato” e alle sue infinite aberrazioni. È deprimente notare che a questa Dichiarazione di Parigi, in cui non figurava nessuna firma di italiano, non ha fatto seguito alcuna decisione politica di contrasto al precipizio verso il quale l’Europa e il mondo vengono sospinti dalla delinquenza cosmopolita.

Eppure Scruton, che è morto nel 2020, non si può dire che fosse solo. Ma i vari Fusaro, Preve, Massimo Fini, Faye, de Benoist, Latouche, Lasch, e alcuni altri, sulla scorta dei rivoltosi d’altri tempi, del tipo di uno Jünger, ma anche di un Camus, persino di un Evola, hanno parlato o ancora parlano a voce troppo bassa. Il ribellismo, per non ridursi a posa retorica, ha bisogno di radicale oltranzismo. La lotta contro il dominio mercantile usurario che si nutre di violenza si estende oggi alla lotta contro la dittatura demenziale della polizia del pensiero, coi suoi picchi subumani legati al transgender o alla cancel culture, operazioni alla bolscevica orchestrate da un pugno di psicopatici, non meno pericolosi di tanti piccoli Robespierre. Qualcuno definì certi posizionamenti nazionali/popolari del passato un “romanticismo d’acciaio”, i cui postulati erano l’iniziativa, l’attacco, l’assalto, l’azione, l’avidità di futuro. E si dice che il Romanticismo sia stato e sia la fusione tra la malinconia/nostalgia di chi coltiva la propria minacciata tradizione primordiale e la volontà di rivolta contro il capitalismo cosmopolita che le tradizioni le uccide[4]. Molto bene. Da questa alchimia rinasca un’altra volta un istinto di vendetta contro ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi in danno dei popoli.

Questa lotta, per uscire dai dialoghi da salotto o dalle pagine scritte, e anche dalla semplice buona volontà, abbisogna di cuori in tumulto e di coscienze febbricitanti di indignazione e rivolta. In un’epoca in cui i democraticissimi governi occidentali istigano a una guerra di pirateria internazionale, vogliono l’incrudimento della guerra, aizzano gli animi all’odio e alla guerra, gli indugi non pagano. Bisogna che lo ripetiamo: nel momento in cui lo scontro fisico, lo spargimento di sangue e la distruzione del nemico, animalizzato e criminalizzato, assurgono a diktat etici, non bastano gli atti, anche clamorosi. Occorrono le azioni. I fatti.

[1] Michel Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione [1997], Fazi, Roma 2008, p. 126.

[2] Michel Onfray, La scultura di sé. Per una morale estetica [1993], Fazi, Roma 2007, p. 29.

[3] Roger Scruton, Il suicidio dell’Occidente, Intervista a cura di Luigi Iannone, Le Lettere, Firenze 2010, p. 14.

[4] Cfr. Michael Löwy-Robert Sayre, Rivolta e malinconia. Il Romanticismo contro la modernità [1992], Neri Pozza, Vicenza 2017, ad es. p. 311.

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