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Jobs Act: dal mito virtuale alla tragedia

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Del Jobs Act si parla assai poco: è un argomento obsoleto o occultato? Un mito virtuale renziano si è trasformato in una tragica realtà.

 

Dal 2015, anno in cui fu varata la riforma del lavoro denominata Jobs Act, sono stati assunti con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti un milione e mezzo di lavoratori. Tale normativa prevedeva, per i nuovi assunti nel 2015 l’esonero contributivo del 100% per le imprese. Imprese che hanno usufruito di un risparmio contributivo per 3 anni di 8.000 euro all’anno. Nel 2018 scade il periodo previsto per il totale sgravio contributivo e pertanto, a regime ordinario, il costo del lavoro per gli assunti con il Jobs Act si incrementerà del 25 – 30%.

E’ stato rilevato da un rapporto dell’Inps del luglio 2017, che in questo ultimo triennio circa 700.000 lavoratori sono fuoriusciti dalle imprese per dimissioni o licenziamento. Occorre infatti rilevare che contestualmente al varo del Jobs Act, è stato abrogato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore non ha più dunque diritto al reintegro nel posto di lavoro, ma solamente ad una indennità che può essere compresa tra i 4 e le 24 mensilità, a seconda dell’anzianità di servizio. E’ evidente che la abrogazione dell’art. 18 ha favorito la flessibilità in uscita e quindi ha incrementato la precarietà del lavoro. Aggiungasi poi che è stata rimodulata la normativa concernente la cassa integrazione: i licenziati delle nuove e ricorrenti crisi aziendali possono usufruire solo della NASPI, cioè del solo sussidio di disoccupazione.

Sono quindi venti meno con la recente riforma del lavoro, essenziali strumenti di protezione sociale per l’occupazione. Il progressivo smantellamento dello stato sociale è ormai un dato di fatto, verificatosi a seguito della liberalizzazione del mercato del lavoro.
Già dal 2016, venendo meno i bonus della totale decontribuzione per i nuovi assunti, per i quali sussisteva solo una esenzione parziale, i nuovi contratti a tempo indeterminato registrarono una flessione del 27% rispetto al 2015, ma contemporaneamente i contratti a tempo determinato ebbero un incremento del 73%. Tale tendenza si è via via accentuata successivamente.

Tuttavia una alta percentuale dei contratti con totale esenzione contributiva hanno avuto una durata inferiore ai 36 mesi previsti. E’ invece cresciuto in misura esponenziale il ricorso al lavoro temporaneo.

Negli ultimi anni i contratti a tempo sono aumentati di 400.000 unità: il lavoro a tempo determinato ha assunto dimensioni sempre più accentuate fino a raggiungere la percentuale del 14% del totale degli occupati.

Occorre inoltre rilevare gli effetti dell’abolizione dei voucher. Tale strumento, introdotto dal governo Renzi per l’emersione del lavoro occasionale (per lo più svolto in nero), diede luogo a macroscopici abusi: si legalizzò di fatto il lavoro nero e lo sfruttamento indiscriminato. Ma l’abolizione dei voucher ha comportato il massiccio ricorso da parte delle imprese ai contratti di lavoro chiamata: una nuova e più estesa precarietà del lavoro.

In realtà sono oggi visibili gli effetti demagogici del Jobs Act e delle riforme del lavoro dell’ultimo quinquennio. L’aumento della precarietà è comunque conforme all’obiettivo di flessibilizzazione del lavoro imposto dalla UE.

La precarietà del lavoro era già stata incentivata dal decreto Poletti del 2014, con il quale venivano ampliate le possibilità di ricorso al contratto a termine: con tale decreto veniva prevista la possibilità di rinnovare i contratti a termine fino a 5 volte in 3 anni, a discrezionalità delle imprese, che in tal modo non erano affatto incentivate ad assumere con contratto a tempo indeterminato.

Con il Jobs Act, in aperta violazione del principio di eguaglianza sancito dalla costituzione, si è istituito in Italia un deleterio dualismo tra lavoratori anziani, forniti di tutte le tutele sindacali e previdenziali previste dallo Statuto dei Lavoratori, e i giovani che, a parità di qualifica, ma assunti con la nuova normativa, sono a tutti gli effetti lavoratori precari e non usufruiscono delle tutele sociali degli anziani.

La smisurata crescita del precariato è inoltre documentata dal fatto che all’incremento occupazionale ha fatto riscontro la crescita dei licenziamenti e la percentuale delle imprese con oltre 15 dipendenti è aumentata del 20%. L’abrogazione dell’art. 18 ha favorito la liberalizzazione del mercato del lavoro.

L’aumento della precarietà del lavoro avrà nel prossimo futuro conseguenze devastanti sulla tenuta del sistema pensionistico. La stessa ripresa economica degli ultimi anni, con il ricorso massiccio alla mobilità del lavoro, rivela tutta la sua fragilità ed evidenzia il clima di perdurante incertezza per il futuro che domina la nostra economia.

La precarietà non favorisce la crescita economica, non consente una adeguata formazione per i giovani e disincentiva gli investimenti nella innovazione. Anzi, la mobilità esasperata del lavoro costituisce un incentivo alla emigrazione delle risorse umane disponibili nei settori dell’economia a più alta specializzazione. La carenza di manodopera registratasi in Italia in settori tecnologici ad alto tasso di specializzazione è un effetto visibile di questo processo di precarizzazione del lavoro.

Lo stesso FMI ha rilevato che la flessibilità e la precarietà del lavoro costituiscono un incentivo per le imprese a non innovare: con la compressione del costo del lavoro possono infatti essere conseguiti profitti a discapito degli investimenti nell’innovazione. Con lo sviluppo di nuove tecniche di produzione più avanzate si potrebbe invece incrementare la produttività del lavoro. Si rivela dunque del tutto infondata la teoria neoliberista secondo cui la liberalizzazione del mercato del lavoro possa costituire un fattore di sviluppo dell’economia. Il fatto che la produttività del lavoro sia cresciuta in Italia in 20 anni di appena 5 punti costituisce la più evidente smentita delle teorie economiche neoliberiste.

L’emergenza occupazione, che è stata abilmente occultata con il ricorso a strumenti temporanei di incentivo alle assunzioni, quali il Jobs Act, viene oggi drammaticamente a riproporsi.

Il fallimento del modello neoliberista imposto dalla UE è evidente. Ma proposte e programmi di nuovi modelli di sviluppo alternativi restano tuttora carenti nella politica istituzionale italiana.

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