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Musicologia col martello

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Intervista a cura di Luigi Tedeschi ad Antonello Cresti, coautore del libro “La scomparsa della musica” NovaEuropa Edizioni 2019

  • Oggi è scomparsa la musica come fenomeno popolare inclusivo, idoneo a generare “traumi ed estasi”, quale elemento rivelatore di una sensibilità collettiva dei popoli (si pensi alla popolarità della musica lirica in Italia nell’ ‘800/’900). La musica è l’espressione immediata e più autentica dell’identità di un popolo. Si è creata nella società attuale una aperta divaricazione tra “musica seria” e “musica bassa”. La musica seria è ormai divenuta una materia riservata a specialisti, a ristrette cerchie di cultori di una scienza elitaria, mentre la musica bassa, è un prodotto mercificato di consumo per le masse, anche in virtù del progressivo abbassamento del livello culturale medio. La musica seria è dunque un’arte destinata ad un culto museale, quasi fosse una espressione artistica di culture e civiltà scomparse, mentre la musica bassa è una merce soggetta a rapida obsolescenza, suscettibile di illimitata riproduzione seriale. Non viene quindi a riflettersi anche nella musica quella concezione elitaria propria della struttura piramidale della società neocapitalista?

L’invasività violenta e sempre più onnicomprensiva del pensiero unico neoliberista, mi fa giungere alla conclusione che oramai ogni distinzione tra “alto” e “basso”, soprattutto nei termini in cui essa è stata formulata per decenni, sia decaduta. Fatalmente infatti il Capitale utilizza mezzi di comunicazione qualitativamente scarsi per imporre il suo verbo planetario, ma teoricamente non esiterebbe a fare il contrario se ne intravvedesse una utilità; ecco perché la ghettizzazione di certi ambienti musicali, che rivendicano ancora la dicotomia alto/basso, finisce per essere essa stessa un momento dialettico nella instaurazione del Capitale Assoluto, per non parlare poi di discorsi piramidali e gerarchici che spesso le accademie utilizzano, che come tu bene indichi, sono la plastica espressione delle strutture del neocapitale. La sussistenza di nicchie che definirei “di testimonianza” offre infatti l’illusione formale che a tutti sia concesso esprimersi e tentare di diffondere il proprio discorso artistico, cosa non vera poiché laddove si intravvedesse un reale pericolo, le tecniche di silenziamento del “dissenso creativo” sono oggi più elaborate che mai. Dal mio punto di vista, dunque, a parte nominali e meritorie accezioni, tutto diviene in questo momento “basso”, poiché tutta la musica ha perso il suo ruolo attivo di costruzione di un senso comune all’interno della società, ruolo che essa ha sempre rivestito. Essa è mera rappresentazione dell’esistente, un esistente che sta espungendo da sé l’uomo e dunque nemico di ogni arte che possa essere definita tale.

  • La tecnologia ha invaso la musica come tutte le espressioni artistico – culturali della società. Ma tale problematica ha radici profonde. Infatti già negli anni ’60, con la diffusione della cultura di massa dei media e dei dischi, i musicologi del tempo affermavano che l’espansione della produzione discografica, pur contribuendo ad accrescere il pubblico dei cultori della musica, avrebbe imposto all’ascolto prodotti artificiali registrati in sala di incisione. In tal modo l’ascolto del pubblico si sarebbe fossilizzato sullo stereotipo di determinate interpretazioni e sarebbe scomparsa la cultura del concerto. Il progresso tecnologico, allora agli albori, ha avuto una sua evoluzione fino agli effetti devastanti dei nostri giorni, sulla creatività degli artisti e la sensibilità musicale del pubblico odierno. E’ la tecnologia stessa a determinare i contenuti musicali di un prodotto destinato al consumo di massa. La tigre tecnologica ha disarcionato ed ucciso il suo cavaliere. Ma, mi chiedo, l’avanzata della tecnologia non avrebbe potuto e dovuto creare nuove forme di espressione artistico – musicali ed estendere quindi gli orizzonti dell’arte musicale? Si pensi alle prospettive evolutive dell’arte delineate dal futurismo.

Il rapporto con la tecnologia è ineludibile per chiunque voglia situarsi nell’alveo di una ideale “Musica Presente”, per utilizzare una terminologia cara proprio al coautore del nostro testo, Renzo Cresti. Il problema però è che sottile è il discrimine tra il “cavalcare la tigre” e dunque utilizzare il mezzo per una visione che sia  comunque “umanistica”, e il venirne soggiogati totalmente perdendo ogni forma di protagonismo nella creazione. Da questo punto di vista è andata a finire che le nuove tecnologie hanno titillato il narcisismo delle masse desideranti, illudendo che chiunque, con un semplice laptop, potesse diventare un compositore. Siamo ben oltre il messaggio distruttivo del punk, che comunque possedeva una sua etica ed una sua estetica… Lo stesso narcisismo porta poi a forma di iperproduzione che sono quantomeno contraddittorie all’interno di un Mercato, quello discografico, che di fatto non esiste più… Un vero peccato poiché oggi i visionari della musica si muovono in un cono d’ombra che li rende talvolta invisibili persino agli stessi addetti ai lavori. Ma questo è anche il cono d’ombra creato dai meccanismi incapacitanti che spesso ha generato l’illusione di trovarsi in una reale “era dell’accesso”…

  • La musica pop, già protagonista del ’68, ma poi soprattutto negli anni ’70, ha voluto interpretare una coscienza giovanile diffusa di dissenso, di ribellione nei confronti della morale e della cultura ufficiale, dei costumi improntati al conformismo, delle istituzioni repressive nei confronti delle nuove generazioni. Il messaggio musicale è divenuto quindi un elemento di rottura generazionale che travalicava il campo musicale, assumendo le vesti di un fenomeno che rifletteva il processo di trasformazione in atto nella società contemporanea. L’evento musicale divenne dunque un fattore di coinvolgimento e riconoscimento per le masse giovanili: la musica era espressione di un comune sentire, un formidabile incentivo alla inclusione e aggregazione sociale. Tale fenomeno si esaurì negli anni ’80, con l’avvento dell’individualismo di massa, del riflusso nel privato e della commercializzazione generalizzata dell’evento musicale. Tuttavia, la commercializzazione della protesta non era già connaturata al fenomeno sessantottino, in cui la musica diveniva evento mediatico di massa, atto a trasformare i costumi e imporre nuove mode in apparente rottura, ma nella sostanza conformi alla logica di espansione di produzione e consumo propria della struttura economico – sociale del capitalismo made in USA? Il capitalismo si evolve assimilando e facendo proprie le istanze di dissenso. Il costume e la moda vengono infatti incorporati nella sovrastruttura culturale, così come le culture alternative divengono funzionali alla sussistenza del sistema capitalista.

Come ho scritto nel libro una riflessione su ciò che è stata la “contestazione” a cavallo tra anni sessanta e settanta è riflessione  ineludibile per il discorso che stiamo facendo, ma che qui ci porterebbe davvero troppo lontani. E’ corretto infatti rilevare, come tu fai, la estrema adattabilità del Capitale, capace di utilizzare a proprio vantaggio forma di dissenso quantomeno apparenti, e ritengo le critiche al 1968 portate avanti da Luc Boltanski e Ève Chiapello o dal nostro Preve per molti versi corrette. Il problema nasce quando il fenomeno lo si approccia da una visuale non esclusivamente politica, come faccio io, e ci si accorge di una problematicità di giudizio, di una ampiezza di orizzonti inaspettata. Ne consegue intanto che quei movimenti espressero anche esigenze che non si sono adattate affatto allo spirito del Nuovo Capitalismo, ma che anzi oggi sarebbero bollate come “reazionarie”, per non parlare poi del braccio di ferro tra artisti e Mercato, spesso risolto, è la storia a dimostrarlo, a favore dei primi… Dunque ciò che noi vediamo ora è senza dubbio lo scenario di una vittoria totale del Capitale, che si esprime anche e soprattutto nella desertificazione dell’immaginario di segmenti che ad esso vorrebbero essere alternativi, ma sarebbe ingeneroso estendere questo giudizio a decenni precedenti, decenni in cui, comunque la si pensasse, né la gioventù, né lo spirito di scissione gramsciano, né la musica erano per l’appunto “scomparsi”. Così come allora non esisteva neanche il colossale inganno del baraccone pop “impegnato”, con ipocriti lavacri della coscienza collettivi stile Live Aid…

  • Oggi la musica è un prodotto di consumo dell’industria discografica. E’ ridotta a quel ritmo incessante, ripetitivo proprio delle funzioni corporee, quali il battito del cuore o del respiro. La musica si è tramutata in una espressione primordiale del suono, ha assunto le forme di un nichilismo negatore di qualsiasi contenuto simbolico, creativo, armonico. A tal riguardo voglio citare un brano del libro di Umberto Galimberti “L’ospite inquietante – Il nichilismo e i giovani”:  “L’incanto del ritmo nella sua eterna ripetizione non è un modello teorico, ma piuttosto una sfida a vivere fuori dal disegno tracciato dall’idea di progresso all’infinito, da cui i giovani spesso si sentono esclusi per le difficoltà a prendervi parte. E quando lo sguardo rivolto al futuro si riduce, forte nasce da un lato l’insistenza sul presente, ben rappresentato dal battito ritmato dei piedi su questa terribile terra, quando un’altra non è promessa, dall’altro lato il bisogno di tornare indietro, al passato, anzi a quel primitivo ritmo del corpo che, custodendo la prima origine del tempo, apre la speranza di un altro futuro”. Qual è la tua opinione in merito?

Galimberti credo si riferisse in questo suo testo ad un modo di fare musica, uno stile. Potrei avere qualcosa da obiettare, soprattutto non sapendo a cosa alludesse in particolare, ma è evidente che anche un ragionamento dialettico di questo tipo è stato nel frattempo bellamente superato dai fatti, in cui certo si può parlare di forme, ma non in un senso tradizionalmente strutturale. Ciò che emerge oggi è infatti piuttosto che il ricorso a questo o quel procedimento, una corsa folle nella direzione di una uniformazione disumanizzata e disumanizzante del linguaggio musicale, in cui la standardizzazione è il baluardo assoluto. Una standardizzazione che, ricordiamolo, investe anche quella che dovrebbe essere la sfera più intima e unica dell’essere umano, ossia il mezzo vocale. E’ pensando a fenomeni come questi che ritengo una critica di carattere “estetico” oramai superata e insufficiente; siamo infatti entrati dalla distopia e per uscirne bisogna avviare una vera e propria rivoluzione che investa ogni aspetto della vita.

  • La musica è un’arte che suscita sensibilità collettive e quindi ha sempre avuto un ruolo rilevante nella sfera politica di ogni comunità umana. Infatti la musica è generatrice di miti coinvolgenti ed unificanti, è un’espressione del sentire comune, di una sensibilità emotiva che precede la razionalità del linguaggio. La musica è una componente essenziale, originaria  dello stesso agire politico dell’uomo. E’ anche vero che le ideologie hanno fatto un largo uso strumentale della musica che, spogliata dei suoi significati originari, ha avuto una funzione didattico – educativa nei regimi ideologico – totalitari. Ma è dalla musica e dalle arti che scaturiscono i fondamenti delle ideologie politiche, mai il contrario. Oggi, nell’era post – ideologica tuttavia, la tecnologia della musica non svolge anch’essa un ruolo ideologico nell’omologazione delle masse, data la pervasività dei media nella colonizzazione dell’immaginario collettivo, specie nell’ormai compiuta simbiosi tra la musica e la cultura dell’immagine, da cui è stata progressivamente fagocitata?      

Questo libro è nato proprio per rivendicare con forza ciò che dici tu, tutte cose che rendono la musica “presente e viva” e non un mero feticcio mercificato, e per opporsi allo stato delle cose. E per lanciare un messaggio chiaro: dobbiamo toglierci dalla testa che in questa era, la più ideologica della storia, come è stato ben indicato, vi sia qualcosa di realmente casuale o decondizionato. Tutto fa parte di un aberrante piano di abbassamento e di controllo ed è ovvio che la musica, medium efficace quanto mai, per quanto fiaccato nell’immaginario dagli stessi strateghi del Capitale, svolga un ruolo attivo in questo processo. Che certi artisti ne siano consapevoli o meno è problema minore (taluni, spesso vezzeggiati come “umanitaristi”, certamente lo sono, mentre altri, semplicemente, non hanno la statura o l’esigenza di capirlo…), poiché quello che conta adesso è svegliarsi e comprendere che la spazzatura musicale con cui dobbiamo confrontarci è l’espressione in suoni e parole di una ideologia contro l’uomo, che mira a distruggere tutto ciò che è forte e bello. Riappropriamoci dell’ascolto attivo, riappropriamoci di quella musica capace di generare “traumi ed estasi” e saremo individui migliori. Certamente, più felici.

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