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DA MISHIMA A VENNER

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APOLOGIA di suicidi  inutili che non hanno arrestato quello collettivo della specie umana

Martedì 21 maggio 2013, circa alle ore 16 (un secolo fa per il web, mai accaduto per l’ignoranza insita o indotta nella specie italica/europoide) nel coro della cattedrale di NÔtre-Dame a Parigi, lo storico del diritto e saggista Dominique Venner (classe 1935), si suicidò sparandosi un colpo in bocca.

Poco prima dell’atto, Venner pose sull’altare un testo che doveva o avrebbe dovuto spiegarlo a chi lo conosceva e a chi di lui si ricordava soltanto come oppositore della legge in favore del matrimonio omosessuale, che fu adottata e promulgata dal Parlamento francese  il 17 maggio del 2013, quattro giorni prima dell’estremo  gesto.

La lettera:

“Perché mi do la morte?


Sono sano di spirito e di corpo e sono innamorato di mia moglie e dei miei figli.
Amo la vita e non attendo nulla nell’al di là, se non il perpetrarsi della mia razza e del mio spirito.
Cionondimeno, al crepuscolo di questa vita, di fronte agli immensi pericoli per la mia patria francese ed europea, sento il dovere di agire finché ne ho la forza.

Ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà.
Offro quel che rimane della mia vita nell’intenzione di una protesta e di una fondazione.
Scelgo un luogo altamente simbolico, la cattedrale di NÔtre-Dame de Paris che rispetto ed ammiro, che fu edificata dal genio dei miei antenati su dei luoghi di culto più antichi che richiamano le nostre origini immemoriali.
Quando tanti uomini vivono da schiavi, il mio gesto incarna un’etica della volontà.
Mi do la morte al fine di risvegliare le coscienze addormentate.

Insorgo contro la fatalità.

Insorgo contro i veleni dell’anima e contro gli invadenti desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari e in particolare la famiglia, nucleo intimo della nostra civiltà plurimillenaria.
Così come difendo l’identità di tutti i popoli presso di loro, insorgo contro il crimine consumato nel rimpiazzo della nostra popolazione.
Essendo impossibile liberare il discorso dominante dalle sue ambiguità tossiche, appartiene agli Europei di trarne le conseguenze.
Non possedendo noi una religione identitaria cui ancorarci, abbiamo in condivisone, fin da Omero, una nostra propria memoria, deposito di tutti i valori sui quali rifondare la nostra futura rinascita in rottura con la metafisica dell’illimitato, sorgente nefasta di tutte le derive moderne.
Domando anticipatamente perdono a tutti coloro che la mia morte farà soffrire, innanzitutto a mia moglie, ai miei figli e ai miei nipoti, così come ai miei amici fedeli.
Ma, una volta svanito lo shock del dolore, non dubito che gli uni e gli altri comprenderanno il senso del mio gesto e che trascenderanno la loro pena nella fierezza.
Spero che si organizzino per durare. Troveranno nei miei scritti recenti la prefigurazione e la spiegazione del mio gesto.”

Il 25 novembre del 1970 accanto al corpo esangue dello scrittore giapponese, Yukio Mishima –suicidatosi con seppuku rituale per manifestare il suo completo ed eroico dissenso contro la degenerazione della società e cultura nipponica dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale – venne trovato questo biglietto, quasi un haiku all’eternità:

“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre.”

Entrambi militanti, Mishima e Venner sono stati divorati dalla critica post-bellica contro ogni intellettuale o artista che avesse aderito in precedenza a qualche principio nazista (ad eccezione dei transfughi dal fascismo italiano che, genuflettendosi alla cultura sinistra, sono persino entrati nel ristretto gruppo dei Premi Nobel).

Oggi, in assenza di ideologie, nella sudicia, falsa rappresentazione destra-sinistra – spettro di quei blocchi che hanno dominato la scena politica e militare del XX° secolo –  non si fa di meglio che cercare alienati dal pensiero dominante; sbatterli nei ripostigli della cultura ossessivo-compulsiva per il politicamente corretto; relegarli all’interno di un ghetto dal quale non debbono uscire; trasformarli in esempi eternamente negativi, curiosità per biografi, morbosità di giovani sempliciotti che si svasticano camere e corpo, pasto letterario per intellettuali radicali che sognano ancora un ritorno a un’età d’oro rivoluzionaria, pre-formativa degli Stati nazionali europei.

Le riflessioni di Venner, quanto quelle di Mishima, hanno ormai perso di slancio emotivo, di efficacia, non fanno male a nessuno, non scalfiscono nè gli europei nè i giapponesi e non instillano coscienza rivoluzionaria in nessuno degli involucri vuoti, circondati da un’aura di minuscolo, egoistico mondo, che non è volontà e nemmeno rappresentazione: sacchi di carne farciti di nulla, che si trascinano nel caos dell’imprevedibile sub-umano, sopravvivendo, quantitativamente, soltanto più negli elenchi di algebriche espressioni fiscali e demografiche o nelle adulazioni pubblicitarie che li blandiscono e ingannano senza tregua. 

Al limite, nei più sensibili e intelligenti, nei meno intruppati nelle fila dei nuovi giusti, possono provocare nostalgia, pietà o un sorriso amaro per ciò che i loro scritti annunciavano come la fine di un’epoca:  l’inizio del vero crepuscolo dell’uomo già prefigurato da precedenti giganti del pensiero filosofico occidentale.

La questione delle radici culturali, quando si tratta di pensatori originali o comunque anti-sistema – e per sistema oggi dobbiamo intendere quest’ accozzaglia europea di Stati tenuti insieme con la coercizione di trattati colla; non accettati con referendum; non fondati su una lingua o un sentire popolare comune; in disequilibrio sul piano economico di una distopia mercantile tedesca che vuole garantirsi il meglio dei profitti dei flussi monetari a base euro, obbligando il resto dell’Unione al vassallaggio dell’importazione obbligatoria dei suoi prodotti commerciali – è invisa, passata sotto silenzio con la compiacenza del catenaccio editoriale-distributivo, che non consegna capillarmente le opere dei suddetti alle biblioteche o ai luoghi dove si esercita il potere della conoscenza: quest’ultimo, sempre e soltanto finalizzato alla sottomissione dei popoli e delle menti giovani, al diktat autocelebrativo del corretto politicamente, del buonismo generalizzato a scopo multietnico, polireligioso e pansessuale.

Scovare i mostri nelle cantine del sapere è lo scopo dei cacciatori di streghe, quelli che occupano presidenze, rettorati, aule magne, coloro che nel Secolo breve (cfr. Eric Hobsbawm) furono le streghe e oggi siedono sugli scranni inespugnabili degli inquisitori.

Dominique Venner ha incarnato il ruolo del mostro dei mostri della cultura francese, odiato da ebrei, musulmani, europeisti, femministe, gay, sinistri, centristi e antirevisionisti.

Le sue opere sono svariate decine, ma a noi italiani ne sono toccate quattro: poveri mentecatti ai quali è meglio non somministrare antidoti, avvelenati come siamo dalla demo-idiozia delirante, lusingatrice dei nostri pochi neuroni, disabituati, fin dalla culla, a connettersi fra loro e a creare una riflessione che non sia una canzonetta o una battutina dal volgare e prevedibile senso.

Leggere libri “divergenti”(sempre che ancora vengano letti), per chi lecca i piedi al potere vigente, è fonte di livore, astio, acidità di stomaco, al quale occorre somministrare un inibitore di reflussi sciovinisti, nazionalisti, identitari: cattivi rigurgiti di una storia morta e sepolta che non può essere riesumata da conati d’isteria indipendentista.

Ordine del giorno: scovare la bestia satanica e scavarci dentro per trovare il marcio, le origini del male, la motivazione psicotica, il delirio, l’indecenza, le sfumature di sterco con il quale imbrattarne la vita, fin nei recessi dell’anima, sostenendo, infine, che lo spirito, in un ”essere” del genere, non può certamente esistere in quanto manchevole di un involucro umano dove albergare.

Venner è il Fantasma dell’Opera, lo sfigurato storpio macellato dall’abbrutimento dell’anti-secessionismo lirico che gorgoglia dalle gole profonde di chi ci mangia soldi e vita appoggiando comodamente le chiappe sulle poltrone, lautamente pagate, nei Parlamenti di Bruxelles e Strasburgo.

Venner voleva l’Europa della tradizione?

No, voleva l’esserci dell’uomo di fronte al suo destino di difensore di un irrinunciabile senso di superiorità morale, giuridica, politica e ideologica.

Una superiorità che non si è espressa solo con l’uso della violenza bellica – come un esorbitante senso di colpa colonialista e antimperialista diffuso vorrebbe far credere – ma scaturita da millenni di tentativi, mai giunti alla perfezione, miranti alla perfettibilità, di popoli che, dai greci e dai latini, hanno appreso gli strumenti intellettuali e materiali per garantirsi una sopravvivenza oltre il mero barbaro afflato consanguineo.

Venner era un uomo dal tratto ellenico-romano e come tale è stato stroncato da una critica che continua a porre lo spirito al di sopra dell’intelletto, sostituendo le fondamenta classiche dell’Europa con un mélange mistico, mediorientale, pseudo-platonico, oltremondano, di falso cristianesimo, giudaismo e islamismo camuffato da salvatore e ri-fondatore della nostra stessa obsoleta civiltà.

Ha tentato in ogni suo scritto di rovesciare il mondo delle idee e porlo ai piedi della ragione.

Si è arrivato a dire anche questo di Venner: che non fosse umano per un suo commento da discepolo al maestro-mostro Heidegger, ancora oggi considerato il nazista della filosofia, l’ incarnazione del demone della decadenza, il cerbero da guardia della setta degli adoratori di Nietzsche, l’Aleister Crowley dell’epistemologia, l’adulatore dei vaneggiamenti storiografici di Spengler, il William Blake dell’ontologia.

Tutto ciò affermato da chi, dopo Marx, non ha fatto altro che demolire l’integrità del Pensiero Occidentale per fondare un’ Europa acefalica e darla in pasto all’avidità famelica del Moloch Mercato, realizzando proprio quella profezia del Tramonto dell’Occidente (cfr. Oswald Spengler) che le sciocchezze sulla Fine della storia (cfr. Francis Fukuyama) post 1989, non sono riuscite a ridurre a un pettegolezzo da corridoio.

Eccolo il suo commento:

Dobbiamo ricordare, come scrisse genialmente Heidegger in Essere e tempo, che l’essenza dell’uomo è nella sua esistenza e non in un ‘altro mondo’. È qui e ora che si gioca il nostro destino, fino all’ultimo secondo. E quest’ultimo secondo ha tanta importanza quanto il resto di una vita. Ecco perché dobbiamo essere noi stessi fino all’ultimo istante. È decidendo noi stessi, è volendo veramente il nostro destino che sconfiggiamo il nulla. E non ci sono scappatoie da questa necessità, perché abbiamo solo questa vita, in cui siamo chiamati a essere interamente noi stessi e a non essere nulla”.

Il “qui e ora”, principio che i sinistri giullari della forzata unione tra genti trattano con deferenza accademica e disgusto dogmatico, cardine di coscienza e conoscenza  che accettano unicamente se lo stesso principio promana dalle auree parole del pacifista Dalai Lama o del Gandalf dell’integrazione sapienziale, il fu Umberto Eco.

Perché sono ben accetti soltanto i pompieri,  nel  tempio divorato dalle fiamme autodistruttive dei falsi Diritti Umani, che bandiscono ogni dovere sociale, nutrendo a dismisura l’immediata voglia di soddisfare i desideri acquistati a rate, in rete e creati incessantemente dalla smisurata forza propagandistica mercantile.

Agli incendiari, meglio offrire lavori socialmente utili, come la distruzione a 451 gradi Fahrenheit  delle sacrileghe opere di Venner. 

Peccato che l’intoccabile Freud, ne “Il disagio della civiltà”, abbia scritto a conforto della citazione di Heidegger e del commento di Venner:

Ora le illusioni hanno la funzione di risparmiarci determinate impressioni spiacevoli e di consentirci invece di appagare dati sentimenti. Ma non dobbiamo lamentarci se esse, una volta o l’altra, cozzano contro la realtà e ne rimangono distrutte.”

La mia apologia è inutile quanto il suicidio di Venner.

Forse si trattò di eutanasia premeditata per non essere di peso a nessuno, al di là della giustificazione sanitaria che i giornali prezzolati si sono dati la pena, dopo aver rimestato tra gli anfratti privati dell’uomo, di comprovarla sventolando le carte di una supposta mancanza di stoicismo, nell’affrontare una malattia che lo avrebbe portato a morte certa nell’arco di pochi mesi.

Per farla breve, considerato che i commenti negativi sparsi sulle ceneri dei poco stimati suicidi di cui tratto, non sono mai abbastanza taciuti, è giusto rilevare che l’amore spicca dalle parole di  Mishima e di Venner, nei loro testamenti di commiato.

Entrambi cercarono nella storia popolare, in quella dei vinti più che dei vincitori, un diverso senso della famiglia e della comunità, a  dispetto dei ruoli  sociali oggi decaduti nelle spire linguistiche di un rovesciamento di significato, idioma di un establishment progressista che rinuncia al sentimento, lo nega, riducendo ogni relazione umana a mera e algida responsabilità civile, riesumando la vecchia litania marxista sulla distruzione della Sacra Famiglia (in contraddizione con la vita privata di Marx pregna di affetti famigliari).

In verità tale disintegrazione di legami è prodromo di un indebolimento dell’uomo, ormai atomo sociale, strappato alla sua vocazione antropologica comunitaria, per essere inserito in una globalità uniforme, brandizzata; affezionato soltanto ai prodotti che consuma o vorrebbe consumare, identificandosi consciamente o inconsciamente con i loro marchi.

Discorsi che furono il manifesto di quella Scuola di Francoforte che non venne ostracizzata come l’opera di Venner.

Anche Marcuse, ne “L’uomo a una dimensione” sosteneva lo scempio e la scempiaggine di una omogeneità esistenziale su scala planetaria.

Se si rileggono i passaggi fondamentali della sua opera più dissacrante, si noterà che il taglio delle sue parole non è meno aspro di quello usato dagli identitari di oggi, relegati nelle ali estreme dei Parlamenti, osservati in tralice come residuati bellici della disintegrazione novecentesca del nazi-fascismo.

Ma Venner ha usato il termine “razza” e subito lo si è confinato nel girone degli anti-semiti per eccellenza, mentre Marcuse, per ovvie ragioni ebraiche, non lo avrebbe mai fatto riferendosi a se stesso o al proprio popolo, anche se il suo pensiero controcorrente, e a tutti gli effetti profetico, oramai non trova spazio che in miseri trafiletti nella liceizzazione degli Atenei di filosofia.

Venner è un falso profeta?

I suoi moniti sono deliri di un pazzo?

Mishima scriveva nel suo proclama alla Nazione, letto prima di togliersi la vita:

“E quando, continuando a sopportare, si oltrepassa anche l’ultima linea, ci si dovrebbe difendere: è da uomo, da samurai, ribellarsi assolutamente.”

E non è difficile pensare che queste parole siano sorte anche e non solo dallo shock emotivo dello scrittore ventenne, irrisolto, causato dai genocidi nucleari, mai puniti – risposta sproporzionata rispetto al vigliacco attacco nipponico su Pearl Harbor – di cui gli USA si sono macchiati a seconda guerra mondiale praticamente finita e contro il volere delle menti più prolifiche del suo apparato scientifico (la lettera Einstein-Szilárd datata 1939).

Motivi per ribellarci oggi ce ne sono innumerevoli, ma qualcosa ha inceppato nell’uomo il senso dell’emancipazione dalla schiavitù delle sue dipendenze e del suo edonismo individualista, nichilista e negazionista.

Questo qualcosa, almeno in Occidente, s’incarna nel continuare a credere, anche contro l’evidenza dei fatti contrari, alle promesse di benessere, pace, prosperità, solidarietà che la pseudo-socialdemocrazia, supina alla finanziarizzazione globalista del capitalismo, disattende costantemente.

I governi si blindano, non si fanno più eleggere direttamente dai popoli;  il Mercato, o il suo volto bancario, li insedia negli emicicli parlamentari e li innalza a difesa della sua macchina di lobotomizzazione dell’individuo.

L’unica ribellione, insana oltretutto, viene dal mondo islamico… ed è tutto dire!

“E tuttavia questa società è, nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale.”

Lo vergava e insegnava Marcuse…  e per queste invettive non  fu processato da nessuno.

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